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https://www.arezio.it/ - Cosa sono i Tensioattivi e che Impatto hanno sull’Ambiente
Marco Arezio - Consulente materie plastiche Cosa sono i Tensioattivi e che Impatto hanno sull’Ambiente
Ambiente

Saponi, detersivi, shampoo, sono solo alcuni esempi di composti che contengono i tensioattiviCome ogni medaglia esiste un lato brillante e uno scuro, nel nostro caso, oggi, parliamo sia del lato brillante, cioè i prodotti della pulizia che assolvono un compito nobile e doveroso, che del lato scuro, che riguarda l’impatto ambientale dello scarico dei tensioattivi nei fiumi, laghi e mari. Argomenti principali trattati nell’articolo: - Cosa sono i tensioattivi - Categorie e differenze tra i tensioattivi - La storia dei tensioattivi - Cosa comporta lo scarico dei tensioattivi nell’ambiente - Quali sono i tensioattivi biodegradabiliCosa sono i tensioattivi I tensioattivi, noti anche come surfattanti, sono composti chimici che vengono utilizzati comunemente nei detergenti, come lo shampoo, i saponi, i detersivi e molti altri prodotti per la pulizia personale e domestica. La loro principale funzione è quella di abbassare la tensione superficiale tra due fasi immiscibili, come ad esempio l'acqua e l'olio, permettendo loro di mescolarsi in una soluzione omogenea. Questa capacità li rende efficaci per disperdere grasso e sporco, facilitando la pulizia e l'eliminazione delle impurità. I tensioattivi possono essere di diversi tipi: - come anionici - cationici - non ionici - anfoteri ciascuno con proprietà specifiche a seconda dell'applicazione desiderata. Categorie e differenze tra i tensioattivi I tensioattivi possono essere suddivisi in diverse categorie principali in base alla loro polarità e carica elettrica. Le principali categorie di tensioattivi sono: Tensioattivi anionici Questi tensioattivi hanno una carica negativa quando si dissolvono in acqua. Sono comunemente utilizzati nei detergenti per lavanderia e piatti, oltre che nei saponi. Gli esempi includono il solfato di sodio laurile (SLS) e il solfato di sodio laurilsolfonato (SLES). Tensioattivi cationici A differenza degli anionici, i tensioattivi cationici hanno una carica positiva in ambiente acquoso. Sono spesso usati come additivi per ammorbidenti, balsami per capelli e detergenti per tessuti. Esempi di tensioattivi cationici includono i cloruri di ammonio quaternario. Tensioattivi non ionici Questi tensioattivi non hanno cariche elettriche e sono spesso utilizzati in detergenti delicati, come detergenti per pelli sensibili o detergenti per lavastoviglie. Gli esempi includono gli alcoli grassi etossilati (AEO) e i nonilfenoli etossilati (NPE). Tensioattivi anfoteri Possono avere sia cariche positive che negative in diverse condizioni di pH. Sono comunemente utilizzati nei prodotti per capelli, come shampoo e balsami. Un esempio comune di tensioattivo anfotero è il cocamidopropil betaina. Le differenze tra i tensioattivi riguardano principalmente le loro cariche elettriche e le proprietà che queste conferiscono ai composti. Inoltre, il tipo di tensioattivo utilizzato può influire sulla sua efficacia per specifiche applicazioni, come la rimozione di grasso, la schiumosità e la capacità di essere stabile in diverse condizioni di pH e temperatura. La scelta del tensioattivo dipenderà dalle esigenze specifiche del prodotto e dalla sua finalità d'uso. La storia dei tensioattivi L'uso di tensioattivi naturali, come il sapone, risale a migliaia di anni fa. I primi tentativi di pulire e lavare gli oggetti hanno spinto l’uomo all'utilizzo di miscele di oli e grassi di origine animale e vegetale, che contenevano già composti tensioattivi naturali. Questi tensioattivi presenti nel sapone permettevano di ridurre la tensione superficiale dell'acqua, facilitando la pulizia. Tuttavia, la produzione su larga scala di tensioattivi sintetici, come quelli utilizzati oggi, è iniziata nel corso del XX secolo, con importanti sviluppi nella chimica industriale e delle materie prime. Infatti, i primi tensioattivi sintetici furono sviluppati durante la prima metà del XX secolo e vennero utilizzati principalmente nell'industria dei detergenti e dei saponi. Non esiste un singolo inventore dei tensioattivi sintetici, ma il merito va attribuito a molti scienziati e ricercatori che hanno contribuito a sviluppare e perfezionare questi composti chimici nel corso del tempo. La loro scoperta e applicazione hanno avuto un impatto significativo sulla pulizia, igiene e produzione di una vasta gamma di prodotti chimici e beni di consumo moderni. Cosa comporta lo scarico dei tensioattivi nell’ambiente Lo scarico dei tensioattivi nell'ambiente può avere diversi effetti negativi, poiché questi composti chimici possono essere dannosi per gli ecosistemi acquatici e terrestri. Vediamo alcune delle principali problematiche ambientali correlate allo scarico di tensioattivi in ambiente: Inquinamento dell'acqua I tensioattivi possono arrivare nei corpi d'acqua attraverso gli scarichi domestici e industriali. Questi composti possono alterare la tensione superficiale dell'acqua, riducendo la capacità degli organismi di planare o galleggiare. Ciò può avere effetti negativi su alcune specie acquatiche, come insetti o piccoli animali che si muovono sulla superficie dell'acqua per alimentarsi o riprodursi. Tossicità per la vita acquatica Alcuni tensioattivi, specialmente quelli non biodegradabili, possono essere tossici per organismi acquatici come pesci, invertebrati e piante acquatiche. Questi composti possono danneggiare gli organismi presenti negli ecosistemi acquatici, alterando la loro fisiologia e la loro capacità di sopravvivenza e riproduzione. Formazione di schiuma Lo scarico eccessivo di tensioattivi può portare alla formazione di schiuma sulla superficie dell'acqua, specialmente in corrispondenza di fonti di scarico come fiumi o laghi. Questa schiuma può interferire con il trasporto dell'ossigeno, creare ostruzioni e ostacoli per la fauna e diventare un problema estetico. Inquinamento del suolo Se i tensioattivi vengono assorbiti nel terreno, possono contaminare le acque sotterranee o influenzare negativamente i microrganismi del suolo, compromettendo la salute e la fertilità del terreno. Quali sono i tensioattivi biodegradabili I tensioattivi biodegradabili sono composti chimici che possono essere facilmente scomposti e decomposti in modo naturale dagli organismi biologici presenti nell'ambiente, come batteri e altri microrganismi. Questa caratteristica li rende meno dannosi per l'ambiente rispetto ai tensioattivi non biodegradabili, poiché si degradano rapidamente e si trasformano in sostanze meno tossiche. Vediamo quali sono i principali tensioattivi biodegradabili:Tensioattivi a base di zucchero Sono ottenuti da fonti vegetali come il mais, la canna da zucchero o il cocco. Sono considerati biodegradabili e spesso utilizzati in prodotti per la pulizia ecologici e sostenibili. Tensioattivi a base di amminoacidi Sono derivati dagli amminoacidi, i mattoni costitutivi delle proteine. Sono biodegradabili e comunemente usati in prodotti per l'igiene personale, come shampoo e detergenti delicati. Tensioattivi a base di oli vegetali Alcuni tensioattivi possono essere ottenuti dalla saponificazione di oli vegetali come l'olio di palma o l'olio di cocco. Sono biodegradabili e utilizzati in prodotti per la pulizia e per la cura della pelle. Tensioattivi enzimatici Sono basati su enzimi, che sono proteine naturali altamente biodegradabili. Sono spesso utilizzati in detergenti per lavanderia e lavastoviglie. Tensioattivi di origine naturale Alcuni tensioattivi possono essere estratti da fonti naturali come le saponarie (Sapindus spp.) o altri alberi e piante. Quando si scelgono prodotti contenenti tensioattivi, è sempre consigliabile cercare quelli con etichette "biodegradabili" o "ecologici" per contribuire a ridurre l'impatto ambientale del loro utilizzo.

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https://www.arezio.it/ - Cosa è la Depavimentazione Urbana e come Influisce sulle Bolle di Calore
Marco Arezio - Consulente materie plastiche Cosa è la Depavimentazione Urbana e come Influisce sulle Bolle di Calore
Ambiente

Il problema delle bolle di calore nelle città fortemente cementificate, ha bisogno di risposte tecnico-politiche efficaciLe estati, sempre più roventi, stanno portando, soprattutto nelle città, un livello di temperatura molto elevato e distribuito, non solo nelle ore diurne, ma anche durante la notte, rendendo invivibile la vita ai cittadini. Argomenti principali trattati nell’articolo: - Urbanistica e calore urbano - Cosa è la depavimentazione urbana - Come risolvere il problema delle isole di calore urbane - Perché le pavimentazioni impermeabili assorbono e rilasciano il calore più di quelle permeabili - Quali sono i progetti più importanti di depavimentazione urbana Urbanistica e calore urbano L’urbanizzazione delle città storiche, ha visto la crescita di edifici abitativi e attività commerciali in nuclei sempre più stretti tra loro, erodendo il tessuto verde per far posto alla cementificazione continuativa. Oltre alla costruzione di edifici, anche di grandi dimensioni e molto vicini tra loro, se addirittura in una sorta di continuità edificativa, si è provveduto a pavimentare le strade, i parcheggi e le arre di collegamento tra un complesso e l’altro, con elementi impermeabili e assorbenti il calore come l’asfalto. In un contesto di cambiamento climatico, dove le ondate di calore colpiscono duro i centri abitati, la tipologia urbanistica e costruttiva odierna è del tutto inadeguata ad attenuare i fenomeni estremi. Strade ed edifici si caricano di calore durante il giorno, per poi restituirlo dalle ore serali in tutta la sua veemenza, impedendo una tregua dalla calura al calar del sole. La progettazione di soluzioni a queste problematiche, vede la necessità di ridurre le aree impermeabili che trattengono e rilasciano il calore, come da depavimentazione da asfalto o coperture stradali continue, per aumentare le aree verdi, le superfici drenanti al fine di mitigare l’effetto dell’accumulo di calore. Cosa è la depavimentazione urbana La depavimentazione urbana è un concetto che riguarda la rimozione di pavimentazioni in aree urbane per scopi specifici. L'obiettivo principale di questa pratica è quello di riqualificare spazi urbani per migliorare la qualità della vita delle persone, aumentare la sostenibilità ambientale e creare aree più piacevoli e funzionali per la comunità. Questo processo può riguardare diverse azioni: Rimozione di pavimentazioni asfaltate o cementate, come, strade, parcheggi e piazze che sono coperti da asfalto o cemento. Il lavoro comporta la rimozione di queste superfici dure e impermeabili, restituendo alla zona uno stato più naturale e permeabile.L’asportazione di queste sovrastrutture può essere utilizzata per creare parchi, giardini e spazi verdi in aree precedentemente pavimentate. Questi spazi possono favorire la biodiversità, migliorare la qualità dell'aria e fornire un ambiente più salutare per gli abitanti della città.La rimozione di pavimentazioni impermeabili può contribuire a prevenire allagamenti e migliorare il drenaggio delle acque piovane, permettendo loro di essere assorbite dal suolo e ricaricare le falde acquifere. Inoltre, le superfici impermeabili assorbono e trattengono il calore, contribuendo all'effetto noto come "isola di calore urbana". Rimuovendo alcune pavimentazioni continue e d impermeabili, è possibile migliorare il comfort termico delle zone urbane. Come risolvere il problema delle isole di calore urbane Il problema delle isole di calore urbane può essere affrontato adottando diverse strategie, tra cui la depavimentazione urbana svolge un ruolo importante. Ci sono diversi aspetti da affrontare per favorire questo fenomeno: Rimuovere parti di pavimentazione e sostituirle con spazi verdi, come parchi, giardini e aree alberate, può contribuire a ridurre l'accumulo di calore nelle città. Le superfici verdi assorbono meno calore rispetto al cemento e all'asfalto, fornendo un ambiente più fresco. Utilizzare coperture vegetali su edifici (tetti verdi) o materiali a bassa capacità termica (tetti freschi) può ridurre l'assorbimento di calore e aiutare a raffreddare gli edifici e le aree circostanti. Promuovere la mobilità sostenibile riducendo il traffico veicolare e creando aree pedonali e piste ciclabili può diminuire le emissioni di calore generate dai veicoli e ridurre l'effetto dell'isola di calore. Le decisioni di pianificazione urbana possono influenzare l'intensità dell'isola di calore. Ad esempio, aumentare la densità di edifici e ridurre gli spazi aperti può aumentare l'effetto dell'isola di calore, mentre una pianificazione oculata può promuovere una migliore circolazione dell'aria e una maggiore presenza di aree verdi. Utilizzare materiali più chiari e riflettenti per pavimentazioni e coperture può aiutare a ridurre l'assorbimento di calore. Allo stesso tempo, promuovere superfici permeabili può facilitare il drenaggio delle acque piovane e ridurre il surriscaldamento. Inoltre, alcune città stanno sperimentando sistemi di raffreddamento urbano, come l'utilizzo di acqua riciclata o impianti di raffreddamento evaporativo per ridurre le temperature nelle zone densamente popolate. Infine, è possibile proteggere e ampliare le aree naturali circostanti, contribuendo a mantenere un microclima più favorevole e ridurre l'impatto dell'urbanizzazione sul riscaldamento. Perché le pavimentazioni impermeabili assorbono e rilasciano il calore più di quelle permeabili Le pavimentazioni impermeabili e permeabili influenzano l'effetto delle isole di calore urbano in modo significativo. Vediamo come funzionano e quali sono le differenze tra queste due tipologie di pavimentazione: Pavimentazioni Impermeabili Le pavimentazioni impermeabili, come l'asfalto e il cemento, hanno una bassa capacità di assorbire l'acqua. Quando il sole colpisce queste superfici, esse riscaldano notevolmente, assorbendo il calore e accumulandolo. Di conseguenza, durante le giornate calde, queste superfici possono diventare estremamente calde, contribuendo all'effetto di riscaldamento dell'isola di calore urbano. Inoltre, l'acqua piovana scorre rapidamente sulle pavimentazioni impermeabili, accumulando in modo limitato e creando problemi di allagamento e scarico nelle città. Pavimentazioni Permeabili Le pavimentazioni permeabili, come il pavimento in porfido, mattoni porosi, calcestruzzo poroso, i grigliati in plastica e cemento e molti altri prodotti, consentono all'acqua di penetrare attraverso la loro superficie e raggiungere il suolo sottostante. Questo tipo di pavimentazione ha una capacità di drenaggio superiore rispetto alle pavimentazioni impermeabili, consentendo all'acqua piovana di essere assorbita nel terreno, ricaricando le falde acquifere e riducendo il rischio di allagamenti. Inoltre, le pavimentazioni permeabili riflettono meno calore rispetto a quelle impermeabili, poiché l'acqua presente sulla superficie evapora e raffredda l'ambiente circostante. Riduzione del Calore Urbano Le pavimentazioni impermeabili contribuiscono all'effetto di riscaldamento delle isole di calore urbano, mentre le pavimentazioni permeabili possono aiutare a ridurlo. La presenza di pavimentazioni permeabili aumenta la quantità di evaporazione dell'acqua e favorisce una migliore circolazione dell'aria, aiutando a raffreddare l'ambiente circostante. Inoltre, le aree verdi, come i parchi e i giardini, che spesso includono pavimentazioni permeabili, contribuiscono ulteriormente a ridurre il calore urbano attraverso il processo di traspirazione delle piante e l'ombreggiamento. Quali sono i progetti più importanti di depavimentazione urbana Non esistono ancora molti progetti di depavimentazione urbana su vasta scala, ma ci sono stati alcuni progetti pilota e iniziative locali interessanti. Ecco alcuni esempi di progetti di depavimentazione urbana significativi: Progetto Depave Portland, Oregon, USA Il progetto Depave si concentra sulla rimozione di pavimentazioni impermeabili per creare spazi verdi nelle aree urbane di Portland. L'iniziativa mira a creare parchi e giardini, nonché a prevenire inondazioni e proteggere l'ecosistema locale. Progetto Sponge City – Cina Le Sponge Cities sono un progetto sperimentato in diverse città cinesi, come Shanghai e Chengdu, per affrontare problemi di inondazioni e gestione delle acque. Questi progetti incorporano la depavimentazione urbana attraverso l'uso di pavimentazioni permeabili, aree verdi e sistemi di raccolta delle acque piovane per prevenire allagamenti e migliorare la gestione delle risorse idriche. Progetto Green Infrastructure - Città Europee Diverse città europee stanno implementando progetti di green infrastructure che includono la depavimentazione urbana. Ad esempio, Copenaghen in Danimarca ha creato piste ciclabili, aree verdi e parchi su ex parcheggi e strade asfaltate per promuovere uno stile di vita più sostenibile e ridurre l'impatto delle isole di calore. Progetto Raining Street - Tokyo, Giappone A Tokyo, è stato lanciato il progetto "Raining Street" che mira a promuovere l'uso dell'acqua piovana per scopi diversi, come il raffreddamento urbano e l'irrigazione. Ciò include la depavimentazione di alcune aree per consentire il drenaggio dell'acqua piovana e il suo riutilizzo. Progetto Urban Heat Islands - Melbourne, Australia Melbourne ha avviato diverse iniziative per affrontare gli effetti delle isole di calore urbane, tra cui la depavimentazione per creare spazi verdi e piste ciclabili e l'utilizzo di materiali a bassa capacità termica per le coperture degli edifici. Progetto Growsmart - Boston, Massachusetts, USA Growsmart è un programma di depavimentazione urbana avviato a Boston per trasformare ex parcheggi e spazi pavimentati in parchi e aree verdi pubbliche. L'iniziativa mira a migliorare la qualità della vita, la salute e la sostenibilità della città.

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https://www.arezio.it/ - Le Concerie del Bangladesh tra Veleni e Malattie
Marco Arezio - Consulente materie plastiche Le Concerie del Bangladesh tra Veleni e Malattie
Ambiente

I marchi mondiali della moda fanno lavorare la pelle per i loro prodotti in un ambiente infernaleCi siamo mai chiesti, guardano una borsetta di pelle griffata o un guanto o un giubbino o un paio di scarpe, quale sia il loro percorso produttivo, e se, attraverso il nostro acquisto, sosteniamo un mercato avvelenato e mortale? Direi che poche persone se lo chiedono, attratte dalla bellezza dell’articolo in pelle che si vuole comprare, nonostante i prezzi dei capi di moda possano costare una fortuna, con l’unico intento di soddisfare il proprio desiderio. Argomenti principali trattati nell’articolo: - Come le concerie del Bangladesh incidono sull’ambiente e sulla vita delle comunità - Quali inquinanti finiscono nei fiumi del Bangladesh a causa delle concerie - Come la produzione influisce sulla salute dei lavoratori - Perché i marchi della moda mondiale continuano a far produrre la pelle conciata in Bangladesh Se vi sedete comodi, vi racconto cosa ci sta dietro, solitamente, alla produzione di un capo in pelle che deve essere conciata e colorata, si perché, queste due operazioni sono, nel settore della produzione della pelle, tra le più inquinanti e dannose per la salute dell’uomo e dell’ecosistema. Siamo in Bangladesh, diventato il centro mondiale della concia delle pelli, favorito dagli ordini che arrivano dalle case di moda o per le case della moda, che in questa nazione trovano un sistema produttivo a basso costo e senza vincoli particolari. Il paese è uno dei maggiori produttori di cuoio al mondo, con un'ampia presenza di concerie che lavorano pelli di animali per produrre prodotti in cuoio come scarpe, borse e abbigliamento. Tuttavia, molte di queste concerie operano in modo non regolamentato e senza adeguati standard di sicurezza ambientale, causando gravi danni all'ambiente e alla salute umana. Come le concerie del Bangladesh incidono sull’ambiente e sulla vita delle comunità Le concerie utilizzano una vasta gamma di sostanze chimiche per il processo di concia, compresi solventi, coloranti, conservanti e prodotti chimici per la pulizia. Molte di queste sostanze chimiche sono altamente tossiche e possono contaminare le acque superficiali e sotterranee, se smaltite in modo inappropriato. La lavorazione delle pelli produce grandi quantità di rifiuti solidi, come scarti di pelli e residui di concia. Se questi rifiuti non vengono smaltiti correttamente, possono contaminare il suolo e le risorse idriche circostanti. Il processo di concia richiede enormi quantità di acqua, che viene estratta da fiumi e altre fonti. Il consumo di acqua da parte delle concerie può portare alla riduzione delle risorse idriche locali e alla siccità. Inoltre, l'inquinamento dell'acqua influisce negativamente sulle specie ittiche e sulla biodiversità dell'ecosistema acquatico. Quali inquinanti finiscono nei fiumi del Bangladesh a causa delle concerie Le concerie in Bangladesh possono scaricare diversi inquinanti nei fiumi circostanti, causando gravi danni all'ecosistema acquatico. Alcuni dei principali inquinanti che finiscono nei fiumi sono: Sostanze chimiche tossiche Durante il processo di concia, vengono utilizzate sostanze chimiche come solventi, coloranti, conservanti e prodotti chimici per la pulizia. Molte di queste sostanze sono tossiche e possono contaminare le acque dei fiumi. Cromo esavalente Il cromo esavalente, un composto chimico altamente tossico e cancerogeno, è spesso utilizzato nelle concerie per fissare il colore del cuoio. Il suo scarico incontrollato può contaminare gravemente i fiumi, rendendoli pericolosi per la vita acquatica e per le persone che dipendono dalle risorse idriche. Rifiuti solidi Le concerie generano grandi quantità di rifiuti solidi come scarti di pelli, residui di concia e peli. Questi, spesso, finiscono direttamente nei fiumi, causando l'inquinamento delle acque e danneggiando gli ecosistemi fluviali. Ammoniaca L'ammoniaca è un sottoprodotto della lavorazione delle pelli che può contaminare le acque dei fiumi. Lo scarico nei fiumi può causare la crescita eccessiva di alghe e altri organismi acquatici, portando alla riduzione dell'ossigeno nell'acqua e alla morte della vita acquatica. Inquinanti organici persistenti (POP) Alcuni prodotti chimici utilizzati nelle concerie, come i clorofenoli e gli idrocarburi aromatici policiclici (PAH), sono considerati inquinanti organici persistenti. Questi inquinanti possono accumularsi negli organismi acquatici e avere effetti nocivi sulla catena alimentare. L'inquinamento dei fiumi causato dalle concerie ha gravi conseguenze sull'ecosistema acquatico, inclusa la perdita di biodiversità, l'alterazione dell'habitat degli organismi acquatici e la compromissione della qualità dell'acqua. Come la produzione influisce sulla salute dei lavoratori L'inquinamento delle concerie ha gravi conseguenze per la salute umana e l'ecosistema locale. Le comunità che vivono vicino alle concerie sono particolarmente colpite, con un aumento dei casi di malattie respiratorie, irritazioni cutanee, problemi oculari e disturbi del sistema nervoso. Inoltre, i lavoratori delle concerie in Bangladesh, possono essere esposti a diversi rischi per la salute, a causa delle condizioni di lavoro e dell'esposizione a sostanze chimiche pericolose. Alcune delle malattie associate al lavoro nelle concerie includono: Dermatiti L'esposizione a sostanze chimiche irritanti e allergeniche utilizzate nel processo di concia può causare dermatiti, che sono infiammazioni della pelle. Queste condizioni possono manifestarsi come eruzioni cutanee, arrossamenti, prurito e irritazioni. Problemi respiratori I lavoratori delle concerie possono essere esposti a vapori e polveri nocive, che possono causare irritazione delle vie respiratorie e problemi respiratori come asma, bronchite cronica e altre malattie polmonari. Malattie oculari L'esposizione a sostanze chimiche e polveri può anche provocare irritazione agli occhi e congiuntiviti, che sono infiammazioni della membrana che riveste l'interno delle palpebre e la superficie dell'occhio. Avvelenamento da metalli pesanti Alcuni prodotti chimici utilizzati nelle concerie contengono metalli pesanti come il cromo, che possono accumularsi nell'organismo dei lavoratori e causare danni ai reni, al fegato e al sistema nervoso. Disturbi neurologici L'esposizione a solventi e altre sostanze chimiche tossiche può aumentare il rischio di disturbi neurologici come danni ai nervi periferici, disturbi cognitivi e deficit di attenzione. Cancro L'esposizione a sostanze chimiche cancerogene, come il cromo esavalente presente in alcuni processi di concia, può aumentare il rischio di sviluppare tumori maligni, in particolare tumori polmonari e del tratto respiratorio. Perché i marchi della moda mondiale continuano a far produrre la pelle conciata in Bangladesh Ci sono diverse ragioni per cui i marchi della moda mondiale continuano a far produrre pelle conciata in Bangladesh nonostante i problemi di inquinamento e le questioni legate ai lavoratori.Il Bangladesh è noto per i suoi bassi costi di produzione e per l'industria conciaria economica. I marchi della moda cercano spesso di ridurre i costi di produzione per aumentare i margini di profitto, e spostare la produzione in paesi a basso costo, come il Bangladesh, può essere un modo per raggiungere questo obiettivo. Il Bangladesh ha sviluppato una solida base manifatturiera, inclusa un'ampia capacità produttiva e infrastrutturale, adeguate per l'industria conciaria. Questo rende il paese un'opzione attraente per i marchi che cercano una produzione su larga scala. Nel corso degli anni, molte aziende hanno stabilito relazioni e catene di approvvigionamento consolidate con i produttori di pelli e concerie in Bangladesh. Cambiare la propria catena di approvvigionamento richiederebbe tempo, risorse e costi aggiuntivi. Alcuni marchi, infine, possono sfruttare le normative meno rigide o le lacune normative nel paese di produzione. Questo può consentire loro di evitare o ridurre le responsabilità ambientali e di sicurezza sulle concerie e di ridurre i costi di conformità.

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https://www.arezio.it/ - La Tutela dell’Ambiente Secondo il Buddismo
Marco Arezio - Consulente materie plastiche La Tutela dell’Ambiente Secondo il Buddismo
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Il concetto di consapevolezza e di saggezza compassionevole applicati al creatoAbbiamo affrontato, negli articoli scorsi, la visione della tutela della natura secondo le principali religioni monoteiste. Oggi vediamo il punto di vista dei buddisti in merito all’ambiente e alle indicazioni che vengono da questa religione. La tutela dell'ambiente è un tema importante per i buddisti, i quali sottolineano il concetto di interconnessione e interdipendenza di tutti gli esseri viventi. Secondo la prospettiva buddista, tutti gli esseri sono considerati degni di compassione e rispetto, inclusa la natura e l'ambiente in cui viviamo. I buddisti cercano di coltivare una consapevolezza profonda dell'impatto delle loro azioni sull'ambiente. Questo può includere pratiche come l'adozione di uno stile di vita sostenibile, riducendo gli sprechi e l'inquinamento, nonché il consumo responsabile delle risorse naturali. Incoraggiano anche ad evitare attività che possano causare danni diretti agli esseri viventi, come la caccia indiscriminata o la distruzione dell'habitat naturale degli animali. Inoltre, promuovono una prospettiva di lungo termine, considerando le conseguenze delle azioni sull'ambiente per le future generazioni. Questo si basa sull'idea di coltivare una saggezza compassionevole e di agire in armonia con la natura, riconoscendo che siamo tutti parte di un ecosistema interconnesso. Cosa è la saggezza compassionevole verso la natura per il buddismo La saggezza compassionevole, nota anche come prajna-paramita nel buddismo, è un concetto centrale che descrive una forma di comprensione profonda e altruistica. È la combinazione di due qualità fondamentali nel buddismo: la saggezza (prajna) e la compassione (karuna). La saggezza compassionevole implica una comprensione profonda della natura, della realtà e la consapevolezza della sofferenza e del desiderio che affliggono gli esseri viventi. Questa comprensione va oltre la mera conoscenza intellettuale, e si sviluppa attraverso la pratica meditativa e l'esperienza diretta. Non si limita a comprendere la sofferenza, ma spinge all'azione compassionevole per alleviare tale sofferenza. Essa motiva a mettere in pratica la compassione, l'amore benevolo e la gentilezza verso gli altri esseri viventi. La saggezza compassionevole verso la natura, nel buddismo implica un profondo rispetto e amore per tutti gli esseri viventi e per l'intero ambiente naturale. Si basa sulla consapevolezza che ogni forma di vita è preziosa e che tutte le cose sono interconnesse. Questo stato implica la comprensione che le azioni umane hanno un impatto sull'equilibrio ecologico e sul benessere di tutti gli esseri viventi, inclusi gli animali, le piante e l'ambiente naturale. Quindi spinge i buddisti a prendere responsabilità delle loro azioni e a fare scelte consapevoli che non causino danni alla natura. La saggezza compassionevole comprende anche la consapevolezza che la sofferenza umana e animale è profondamente interconnessa con la distruzione dell'ambiente. I buddisti riconoscono che il rispetto e la cura per la natura sono essenziali per garantire il benessere di tutti gli esseri viventi, inclusi gli esseri umani stessi. In sintesi, la saggezza compassionevole verso la natura nel buddismo implica una profonda connessione emotiva con l'ambiente naturale e un impegno attivo per la sua protezione e conservazione.

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https://www.arezio.it/ - Come Migliorare l’impatto Ambientale delle Cartiere
Marco Arezio - Consulente materie plastiche Come Migliorare l’impatto Ambientale delle Cartiere
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Sbiancanti ecologici, fibre riciclate, energia rinnovabile, risparmio di acqua e riduzione dei rifiuti liquidi e solidiNella nostra mente, quando immaginiamo un foglio di carta su cui scrivere, o una pagina di un libro, ci viene in mente subito la tonalità del bianco, acceso, pulito e chiaro. Oppure se immaginiamo un imballo in carta o cartone ricordiamo più spesso quelli su base bianca o chiara, con colori accesi che danno il senso del nuovo e del pulito.Argomenti principali trattati nell’articolo:- Fattori di inquinamento- Sbiancanti ecologici- Come ridurre il consumo idrico in produzione- Energie rinnovabili e Rifiuti Ma come in tutte le cose, il risvolto della medaglia può essere l’impatto ambientale che il bello e il bianco possono avere nella produzione di carta e cartone. I maggiori responsabili di un possibile impatto ambientale in fase di produzione di prodotti cartacei, si possono identificare negli sbiancanti e, in generale di altri prodotti chimici di processo, nell’uso della materia prima necessaria, come la polpa di legno, nel consumo di acqua, di energia e nella produzione di rifiuti liquidi e solidi. Vediamo nel dettaglio le principali voci che pesano sull’ambienteL’impatto ambientale degli sbiancanti della carta e soluzioni più ecocompatibili Lo sbiancamento della carta nel processo di produzione può avere un impatto ambientale significativo, a causa dell'uso di sostanze chimiche e dell'emissione di inquinanti. Impatto che raggruppa diversi fattori interconnessi fra di loro: Inquinamento delle acque: lo sbiancamento della carta spesso coinvolge l'uso di sostanze chimiche, come cloro, clorati e cloruri, che possono essere rilasciate nei corpi idrici. Queste sostanze possono causare l'inquinamento delle acque, alterando la loro qualità e danneggiando gli ecosistemi acquatici. Alcune sostanze chimiche utilizzate nello sbiancamento, come il cloro elementare, possono formare composti clororganici tossici, inclusi i clorofenoli e le diossine, che sono potenzialmente dannosi per la salute umana e per l'ambiente. Consumo di acqua: lo sbiancamento della carta richiede grandi quantità di acqua per il lavaggio e il trattamento delle fibre di cellulosa. Questo può avere un impatto significativo sull'approvvigionamento idrico locale, in particolare in aree con risorse idriche limitate o in periodi di siccità. Consumo energetico: il processo di sbiancamento della carta richiede l'uso di energia per il funzionamento degli impianti di produzione e per il riscaldamento dell'acqua utilizzata nel processo. L'uso di energia proveniente da fonti non rinnovabili contribuisce alle emissioni di gas serra e all'aggravamento del cambiamento climatico. Per mitigare gli impatti ambientali dello sbiancamento della carta, sono state sviluppate tecnologie e metodi alternativi, come l'uso di processi di sbiancamento senza cloro o l'adozione di sistemi di recupero e riutilizzo delle sostanze chimiche. Inoltre, l'utilizzo di fibre di cellulosa riciclate o di alternative sostenibili, come le fibre di canna da zucchero o di bambù, può ridurre la necessità di sbiancamento e i suoi impatti ambientali associati. L'adozione di pratiche di produzione sostenibile e l'uso responsabile delle risorse naturali sono fondamentali per mitigare l'impatto ambientale dello sbiancamento della carta.Sbiancanti EcologiciDal punto di vista dei prodotti adatti allo sbiancamento della carta in fase produttiva, che abbiano un’attitudine più green, possiamo citare gli sbiancanti ecologici in alternativa a quelli classici prettamente chimici. Questi sbiancanti ecologici riducono o eliminano l'uso di sostanze chimiche nocive, come il cloro e i composti clorati, che possono avere un impatto ambientale negativo.Ecco alcuni esempi di sbiancanti ecologici utilizzati nella produzione della cartaSbiancamento senza cloro: questa tecnica di sbiancamento elimina completamente l'uso di cloro e composti clorati. Alcuni dei metodi di sbiancamento senza cloro includono l'uso di ossigeno (sbiancamento all'ossigeno), perossido di idrogeno (sbiancamento al perossido di idrogeno) o enzimi (sbiancamento enzimatico). Questi sbiancanti alternativi riducono le emissioni di sostanze chimiche nocive e sono considerati più ecologici rispetto al tradizionale sbiancamento al cloro. Sbiancamento a base di ozono: l'ozono è un potente ossidante che può essere utilizzato come sbiancante nella produzione della carta. Il processo di sbiancamento a base di ozono riduce l'uso di cloro e può contribuire a ridurre le emissioni di sostanze chimiche tossiche nell'ambiente. Tuttavia, l'ozono stesso deve essere prodotto con attenzione, poiché può contribuire alla formazione di ozono troposferico, un inquinante dell'aria. Sbiancamento con perossido di idrogeno stabilizzato (H2O2): il perossido di idrogeno è un ossidante delicato che può essere utilizzato come alternativa al cloro nello sbiancamento della carta. Il perossido di idrogeno stabilizzato viene spesso utilizzato in combinazione con altre sostanze, come gli agenti chelanti, per migliorare l'efficacia dello sbiancamento. L'uso del perossido di idrogeno riduce l'impatto ambientale rispetto al cloro e ai composti clorati. Sbiancamento a base di luce solare: l'esposizione della pasta di cellulosa alla luce solare può contribuire a sbiancarla naturalmente. Questo processo, noto come sbiancamento al sole, sfrutta i raggi ultravioletti del sole per ossidare e sbiancare la pasta di cellulosa. Anche se può richiedere più tempo rispetto ai metodi chimici, è considerato un metodo ecologico di sbiancamento. L'adozione di sbiancanti ecologici nella produzione della carta contribuisce a ridurre l'inquinamento delle acque e l'emissione di sostanze chimiche tossiche nell'ambiente. Queste alternative sostenibili aiutano a preservare la qualità dell'acqua e a ridurre l'impatto sulla salute umana e sull'ecosistema. Utilizzo delle materie prime riciclateUtilizzo di carta e cartone da riciclo riduce l’impatto ambientale sulle foreste, vediamo i vantaggi:Riciclo della carta: promuovere e incentivare il riciclaggio della carta è uno dei modi più efficaci per ridurre l'inquinamento derivante dalla produzione di carta vergine. Il riciclaggio consente di ridurre la quantità di legname vergine necessario e riduce le emissioni di gas serra associate alla produzione di carta da fibra vergine. Utilizzo di fibre riciclate: utilizzare fibre di carta riciclate come materia prima per la produzione di carta riduce la dipendenza dalle fibre vergini e minimizza la deforestazione. L'impiego di fibre riciclate richiede anche meno energia e acqua rispetto alla produzione di carta da fibra vergine. Gestione responsabile delle foreste: la produzione di carta sostenibile richiede la gestione responsabile delle foreste. L'acquisto di fibre di legno provenienti da foreste certificate, che seguono criteri di gestione sostenibile, contribuisce alla conservazione delle risorse forestali e all'ecosistema. Come ridurre il consumo idrico nella produzione di carta e cartone Ridurre l'uso dell'acqua nella produzione di carta è un aspetto fondamentale per rendere il processo più sostenibile. Vediamo alcune strategie efficaci per ridurre l'uso dell'acqua:Riciclaggio dell'acqua: implementare sistemi di riciclo dell'acqua all'interno degli impianti di produzione di carta può ridurre notevolmente il consumo di acqua dolce. L'acqua utilizzata nei processi produttivi, come il lavaggio delle fibre di cellulosa o il raffreddamento, può essere trattata e riutilizzata in altre fasi del processo. Ciò contribuisce a ridurre la dipendenza dall'acqua fresca e a minimizzare lo sfruttamento delle risorse idriche. Utilizzo di acqua di processo pulita: ottimizzare l'utilizzo dell'acqua nelle diverse fasi del processo di produzione di carta può ridurre gli sprechi. Ad esempio, separare l'acqua di processo pulita da quella contaminata può consentire di riutilizzare l'acqua pulita in altre fasi del processo in cui non è necessaria acqua di alta qualità. Questo aiuta a ridurre il consumo complessivo di acqua. Miglioramento delle pratiche di pulizia: ridurre la quantità di acqua utilizzata per la pulizia delle attrezzature e delle superfici può contribuire a una significativa riduzione del consumo di acqua. L'implementazione di sistemi di pulizia più efficienti, come l'utilizzo di detergenti ad alta efficienza e sistemi di spruzzatura ad alta pressione, può aiutare a ridurre il volume di acqua necessario per le operazioni di pulizia. Ottimizzazione dei processi di fabbricazione: identificare e implementare modifiche nei processi di produzione per ridurre l'uso dell'acqua può portare a significativi risparmi. Ad esempio, ottimizzare le fasi di impregnazione e di lavaggio delle fibre, migliorare i sistemi di filtrazione e concentrare le operazioni di lavaggio in modo efficiente può ridurre il consumo di acqua senza compromettere la qualità del prodotto finale. Monitoraggio e controllo del consumo di acqua: implementare sistemi di monitoraggio e controllo del consumo di acqua permette di identificare e affrontare le aree di spreco o di utilizzo inefficiente. L'adozione di tecnologie avanzate come sensori, controlli automatici e analisi dei dati può fornire informazioni preziose per ottimizzare l'uso dell'acqua nel processo di produzione di carta. Sensibilizzazione dei dipendenti: coinvolgere e sensibilizzare i dipendenti sul tema dell'uso consapevole dell'acqua può contribuire a una maggiore consapevolezza e ad un comportamento più responsabile. Promuovere una cultura aziendale orientata alla sostenibilità idrica può incentivare l'adozione di pratiche di utilizzo efficiente dell'acqua da parte di tutti gli operatori coinvolti nel processo di produzione. Infine, possiamo citare due campi di intervento sui processi produttivi indiretti che possono portare ad una riduzione dell’impatto ambientale nella produzione di carta e cartone: Uso dell’energia rinnovabile: ridurre l'impatto ambientale della produzione di carta implica anche l'adozione di fonti di energia rinnovabile. L'utilizzo di energia solare, eolica o idroelettrica per alimentare gli impianti di produzione di carta contribuisce a ridurre le emissioni di gas serra e l'uso di combustibili fossili. Riduzione degli scarti e riciclo dei rifiuti: ridurre la generazione di scarti e promuovere il riciclo dei rifiuti nella produzione di carta è fondamentale per minimizzare l'impatto ambientale. L'implementazione di programmi di riduzione degli scarti, il recupero energetico dai rifiuti e l'utilizzo di processi di compostaggio possono contribuire a ridurre gli impatti ambientali negativi.

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https://www.arezio.it/ - I Disastri Ambientali delle Attività Minerarie in Europa
Marco Arezio - Consulente materie plastiche I Disastri Ambientali delle Attività Minerarie in Europa
Ambiente

L’estrazione e la lavorazione dei minerali hanno frequentemente lasciato un segno indelebile sui territori e sulla popolazioneLe miniere e le cave di estrazione, sono state spesso ubicate in zone scarsamente abitate, dove l’impatto immediato delle attività sui luoghi abitati, era poco monitorato e non destava una grande preoccupazione sociale. In realtà, queste attività, se non gestite nel rispetto dell’ambiente, possono essere silenti avvelenatori di un territorio o, come successe tante volte, sfociare in veri e propri disastri ambientali.Ma quali sono questi rischi primari delle attività minerarie per il territorio e le persone: - Distruzione degli habitat: l'apertura di miniere può comportare la distruzione o l'alterazione degli habitat naturali, con conseguenze negative sulla biodiversità- Inquinamento dell'acqua: l'attività mineraria può provocare il rilascio di sostanze chimiche tossiche o metalli pesanti nell'acqua, contaminando le falde acquifere, i fiumi e i laghi circostanti - Inquinamento atmosferico: le attività di estrazione e lavorazione dei minerali possono rilasciare polveri sottili, gas nocivi e altre sostanze inquinanti nell'aria - Impatto del rumore e delle vibrazioni: l'estrazione mineraria può generare rumori intensi e vibrazioni che possono disturbare la fauna selvatica e le comunità locali - Gestione dei rifiuti: l'attività mineraria genera grandi quantità di scarti, come scarti di roccia, scorie e materiali di scavo - Impatto sull'uso del suolo: l'apertura di miniere comporta spesso la conversione di terreni agricoli o forestali in aree industriali Purtroppo, la storia ci ha consegnato episodi tragici, avvenuti in Europa, che sono stati generati da deficienze delle attività minerarie in Europa, che hanno comportato un importante danno ambientale e, conseguentemente, delle ricadute negative e pericolose per la popolazione che, direttamente o indirettamente, è venuta a contatto con l’inquinamento prodotto. Di questi disastri ambientali ne vogliamo ricordare tre di particolare intensità: 1. Disastro della miniera di Aznalcóllar (Spagna, 1998). Un bacino di decantazione di una miniera di pirite in Spagna si è rotto, riversando circa 5 milioni di metri cubi di liquami tossici e contenenti metalli pesanti nel fiume Guadiamar. L'inquinamento risultante ha danneggiato gravemente l'ecosistema fluviale, compresi i terreni agricoli circostanti. 2. Disastro del cianuro in Romania (2000). La rottura di una diga contenente liquami tossici provenienti da una miniera d'oro nel nord della Romania ha causato il riversamento di circa 100.000 metri cubi di acqua contaminata da cianuro nel fiume Tisza. Questo ha generato una significativa morte della fauna ittica e ha avuto effetti negativi sull'approvvigionamento di acqua per molte comunità. 3. Disastro della diga di Kolontár (Ungheria, 2010). La rottura di una diga contenente residui tossici provenienti da una miniera di alluminio ha causato il riversamento dei fanghi rossi, altamente corrosivi, in diverse città e campi agricoli. Questo incidente ha causato diversi decessi e ha avuto gravi conseguenze per l'ambiente locale. Disastro della miniera di Aznalcóllar (Spagna, 1998) Il disastro della miniera di Aznalcóllar è un grave incidente ambientale avvenuto il 25 aprile 1998 nella regione di Andalusia, in Spagna. L'incidente coinvolse la rottura di una diga di decantazione nella miniera, situata vicino al Parco Nazionale di Doñana. La miniera di Aznalcóllar era dedicata all'estrazione di minerali, in particolare di pirite, contenente elevate concentrazioni di metalli pesanti come piombo, zinco e cadmio. La diga di decantazione, che aveva lo scopo di trattenere i residui tossici generati dalla lavorazione della pirite, cedette improvvisamente, causando il riversamento di circa 5 milioni di metri cubi di liquami tossici nella regione circostante. I liquami contenenti metalli pesanti e sostanze chimiche nocive si riversarono nel fiume Agrio, che a sua volta si unisce al fiume Guadiamar. Questo provocò una vasta contaminazione delle acque e del terreno lungo il corso dei fiumi. L'area colpita includeva zone umide, habitat naturali e terreni agricoli, creando un impatto significativo sull'ecosistema locale. L'incidente suscitò preoccupazioni per l'importante riserva naturale del Parco Nazionale di Doñana, riconosciuta come sito di patrimonio mondiale dall'UNESCO. Il parco è una zona umida di importanza internazionale e un habitat cruciale per numerose specie di uccelli migratori e altri animali selvatici. L'inquinamento causato dal disastro di Aznalcóllar rappresentò una minaccia diretta per questo prezioso ecosistema. Le autorità spagnole e le organizzazioni ambientaliste intervennero rapidamente per affrontare la situazione. Furono adottate misure di emergenza per contenere l'inquinamento e ripristinare l'area colpita. Ciò includeva la costruzione di barriere per limitare la diffusione dei liquami tossici, la bonifica dei terreni contaminati e la reintroduzione di specie animali e vegetali native. Il disastro della miniera di Aznalcóllar ha messo in evidenza l'importanza di un'adeguata gestione dei rifiuti industriali e delle misure di sicurezza nelle miniere. Ha sottolineato la necessità di controlli più rigorosi e di una maggiore responsabilità da parte delle industrie minerarie nel prevenire incidenti ambientali dannosi. L'incidente ha anche contribuito a una maggiore consapevolezza dell'importanza della conservazione delle aree naturali sensibili e dell'ecosistema unico del Parco Nazionale di Doñana. Disastro del cianuro in Romania (2000) Il disastro ambientale del cianuro in Romania si riferisce a un grave incidente avvenuto il 30 gennaio 2000, quando una diga contenente liquami tossici provenienti da una miniera d'oro si ruppe nel nord della Romania. L'incidente ha causato il riversamento di una grande quantità di acqua contaminata da cianuro nel fiume Tisza e successivamente nel Danubio. La miniera coinvolta era la miniera d'oro di Baia Mare, situata nella regione di Maramureș. A seguito della rottura della diga di contenimento, circa 100.000 metri cubi di acqua contaminata, contenente elevate concentrazioni di cianuro e metalli pesanti, si sono riversati nel fiume Tisza. Il cianuro è un composto altamente tossico per gli organismi viventi e può causare danni irreversibili all'ecosistema acquatico. L'inquinamento da cianuro ha avuto effetti disastrosi sulla fauna ittica del fiume Tisza e dei suoi affluenti. Si stima che migliaia di tonnellate di pesci siano morte a causa dell'avvelenamento da cianuro. Inoltre, il fiume Tisza attraversa diversi paesi, tra cui Romania, Ucraina, Ungheria e Serbia, e l'inquinamento si è esteso anche a questi territori, causando danni all'ambiente fluviale e minacciando le risorse idriche locali.Disastro della diga di Kolontár (Ungheria, 2010)Il disastro della diga di Kolontár è un grave incidente avvenuto il 4 ottobre 2010 in Ungheria. La diga di contenimento di una miniera di alluminio situata nel villaggio di Kolontár si ruppe, causando il riversamento di grandi quantità di fanghi rossi altamente corrosivi in diverse città e campi agricoli circostanti. I fanghi rossi, noti anche come "fango bauxite", sono un sottoprodotto tossico del processo di raffinazione dell'alluminio. Contengono elevate concentrazioni di sostanze chimiche nocive, tra cui metalli pesanti, come l'arsenico e il piombo. Quando la diga si è rotta, una massa di fango rosso altamente alcalino si è riversata nella valle circostante, coprendo tutto ciò che incontrava lungo il suo cammino. L'incidente ha avuto conseguenze devastanti. Le città di Kolontár e Devecser sono state le più colpite, con case e infrastrutture completamente sommerse dai fanghi tossici, dieci persone hanno perso la vita nell'incidente e molte altre sono rimaste ferite. L'inquinamento ha avuto un impatto significativo sull'ambiente locale, distruggendo le terre agricole, uccidendo la fauna e contaminando le risorse idriche. Le autorità ungheresi hanno dichiarato lo stato di emergenza e hanno avviato un'ampia operazione di pulizia e bonifica. Le squadre di emergenza hanno lavorato per contenere il fango e cercare di prevenire il suo raggiungimento del fiume Danubio. È stato costruito un sistema di dighe temporanee per evitare ulteriori fuoriuscite e sono stati avviati sforzi per ripulire le aree colpite e ripristinare l'ambiente.

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https://www.arezio.it/ - E' di una Compagnia Aerea Africana il Primo Volo dall'Africa con un Biocarburante
Marco Arezio - Consulente materie plastiche E' di una Compagnia Aerea Africana il Primo Volo dall'Africa con un Biocarburante
Ambiente

Il SAF (Sustainable Aviation Fuel) miscelato con il normale carburante JetA1 testato su un volo intercontinentaleSi è parlato molte volte dell'impatto ambientale che il traffico aereo mondiale produce, sia per il numero di voli giornalieri nelle tratte bervi, medio lunghe ed intercontinentali, sia per il consumo di carburante per viaggiatore che un aereo esprime. Nell'ottica di trovare delle soluzioni compatibili, tra l'esigenza di movimento della popolazione mondiale e la necessità di contenere l'inquinamento, si è testato un carburante 100% di derivazione vegetale, prodotto in Italia, che potesse, attraverso la miscelazione con il normale carburante jetA1, esprimere livelli di emissioni inquinanti più basse.Una collaborazione che è nata tra un'azienda Italiana e una compagnia aerea Africana che stanno portando avanti un progetto che non solo porti a completare la fase dei test su voli a lungo raggio, ma permetta una più proficua collaborazione anche per le fonti di approvvigionamento della materia prima vegetale utilizzata. A questo test si è sottoposta la compagnia aerea Kenya Airways, che ha compiuto il primo volo in partenza dall'aeroporto internazionale Jomo Kenyatta di Nairobi, con arrivo ad Amsterdam Schiphol con un Boeing 787-800 (B787-8) Dreamliner. Per questo volo, il JetA1 è stato miscelato con Eni Biojet prodotto nella raffineria di Livorno distillando le bio-componenti prodotte nella bioraffineria di Gela in Siciclia. “La collaborazione con Eni Sustainable Mobility per questo primo volo con il SAF (Sustainable Aviation Fuel) ci mette sulla rotta per testare l'uso del carburante per l'aviazione sostenibile in Africa. I dati e le informazioni generati dal volo pilota saranno preziosi per le decisioni politiche, i quadri normativi e le best practice del settore relative al SAF. Si tratta di un’importante pietra miliare per Kenya Airways e per il più ampio settore dell'aviazione africana” dichiara Allan Kilavuka, amministratore delegato di Kenya Airways. “La fornitura di Eni Biojet all’aeroporto di Nairobi è un passo importante per Eni Sustainable Mobility perché conferma come l’azienda possa sostenere, anche in ambito internazionale, compagnie aeree come Kenya Airways nel proprio percorso di decarbonizzazione” dichiara Stefano Ballista, Amministratore delegato di Eni Sustainable Mobility. Eni Biojet contiene il 100% di componente biogenica ed è idoneo ad essere utilizzato in miscela con il jet convenzionale (JetA1) fino al 50%. Dal 2025, per tutti i voli in partenza dagli aeroporti europei, una quota di SAF sarà obbligatoria. Per questo KQ sta lavorando per trarre vantaggio dall’attuale diffusione dei carburanti sostenibili per l'aviazione, in conformità con la direzione indicata dall'Unione Europea con il regolamento ReFuelEU Aviation, che stabilisce obiettivi di miscelazione dei carburanti tradizionali con carburanti più sostenibili in quantità crescenti. Eni commercializza anche un carburante per il settore avio contenente il 20% di componente biogenica, il JetA1+Eni Biojet, per la cui fornitura ha sottoscritto accordi con compagnie aeree nazionali e internazionali, oltre che con aeroporti e operatori del settore della logistica. Dal 2024 le bioraffinerie di Venezia e Gela inizieranno la produzione di Eni Biojet a partire da materie prime rinnovabili che arriverà a oltre 200 mila tonnellate/anno. Questo obiettivo richiede un’importante fornitura di materie prime, per la quale Eni sta sviluppando sia una filiera in Kenya per la raccolta degli UCO (oli di cucina esausti), lavorando con aziende e operatori del settore food e contribuendo a gestire un rifiuto alimentare in un’ottica di economia circolare, sia una rete di agri-hub in Kenya e altri Paesi africani, per produrre oli vegetali da terreni marginali che non sono in competizione con la produzione alimentare.Info by ENI

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https://www.arezio.it/ - La Messa al Bando della Carne Sintetica è un Bene per i Consumatori?
Marco Arezio - Consulente materie plastiche La Messa al Bando della Carne Sintetica è un Bene per i Consumatori?
Ambiente

Molti interessi non scientifici girano attorno a questa decisione con un fine forse poco nobileIn alcuni paesi, tra cui l’Italia, la cosiddetta carne coltivata, cioè creata in laboratorio attraverso la lavorazione di cellule staminali prese da animali, è stata vietata. Il motivo ufficiale sembrerebbe quello della protezione della salute dei consumatori, ma più verosimilmente sembrerebbe sia la tutela della filiera della carne, una tra le più inquinanti che ci sia. I puristi della tavola e della gastronomia non vogliono sentire la parola “sintetico” quando si parla di un cibo, che fa pensare a pericolose manipolazioni, danni alla salute e lobbies pericolose nate in laboratorio. La questione sarebbe da affrontare con cognizione di causa, informandosi e conoscendo cosa c’è già di sintetico sulle nostre tavole, che viene spacciato come naturale. Bene, partiamo proprio da qui e facciamo alcuni esempi: le maggiori specie di piante da frutto o le piante come la soia, il frumento, il granoturco, il riso e molte altre specie, sono la conseguenza di ibridazioni nate in laboratorio, con lo scopo di fortificare la pianta, di renderla più resistente alla siccità, ai parassiti, agli insetti e cercare di ottenere una maggiore produzione. Tutto quello che si ricava da queste coltivazioni ha ormai poco di naturale e molto di ingegneristico, una collana di deviazioni, mix, separazioni di elementi per portare un miglioramento nell’agricoltura. Tutti questi studi portano alla produzione di semi modificati, che in natura non si trovano, gestita da alcune multinazionali che hanno creato un mercato ristretto e protetto, tant’è vero che molti semi sono venduti sterili così il contadino non li può più usare, ed è costretto a ricomprarli per la semina successiva. E allora, di cosa ci scandalizziamo quando cambiamo prodotto, passando dal vegetale all’animale? Non vorrei illustrare nuovamente gli impatti negativi che la filiera della carne esprime in tutto il mondo, perché credo siano sotto gli occhi di tutti quando si parla di deforestazione, occupazione dei suoli, consumo di acqua, emissioni di metano, impatto della CO2 sui trasporti e la conservazione del prodotto, danni sulla salute umana per consumi elevati di carne, e per finire, ma non di ultima importanza, la gestione della vita degli animali. La carne coltivata, o sintetica come viene più banalmente chiamata, è stata approvata, dal punto di vista della sicurezza alimentare, in molti paesi avanzati, quindi sfatiamo questa errata informazione e consideriamola sicura come un qualsiasi vegetale modificato che ci arriva sulla tavola. Attraverso l’uso di questa carne coltivata il consumatore riduce notevolmente l’impatto ambientale che la filiera degli animali da macello produce, restituendo alla natura un po' di fiato, perché al mondo siamo circa otto miliardi di mangiatori incalliti che divoriamo qualsiasi risorsa naturale commestibile. Ma le restrizioni che sono intervenute sulla carne coltivata hanno più il sapore di un appoggio politico a filiere economiche che producono voti, nulla centra con la difesa del marchio gastronomico di un paese piuttosto che di un altro, o sui dubbi che errate manipolazioni possano arrecare danni al consumatore. In fondo, però, non sono troppo preoccupato per questo stop, perché il progresso si può, forse, un po' rallentare, ma non si può fermare e, siccome le risorse naturali sono sempre di meno, si dovrà seguire le soluzioni scientifiche. Mangeremo pesci senza lische, carni con o senza l’osso, o grasso, dallo stesso gusto e piacere in bocca di quella naturale, come stiamo facendo per l’uva o i mandarini senza noccioli. Traduzione automatica. Ci scusiamo per eventuali inesattezze. Articolo originale in Italiano.

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https://www.arezio.it/ - Le Resistenze di Winston Churchill nel Varo della Prima Legge Anti Smog
Marco Arezio - Consulente materie plastiche Le Resistenze di Winston Churchill nel Varo della Prima Legge Anti Smog
Ambiente

Le influenze degli industriali del carbone e delle attività collegate che non volevano una legge che minasse i loro interessiSappiamo dalla storia che un motivo, tra i tanti, della grandezza dell’Inghilterra a cavallo tra il XIX° e il XX° secolo fu la propria indipendenza energetica, basata sul carbone, che permetteva all’industria di lavorare, alle case di scaldarsi e poter cucinare e ai trasporti navali di funzionare. Il risvolto della medaglia di tutto questo progresso fu l’inquinamento che pervadeva le città, Londra compresa, creando fitte coltre di nebbie composte da inquinanti dannosi derivanti alla combustione del carbone. Non si comprese, in quel periodo storico, la correlazione tra le emissioni in atmosfera causate dal carbone domestico ed industriale, e la letalità della nebbia inquinata che veniva respirata dagli uomini de dagli animali, portando a patologie respiratorie spesso inquadrate come influenza. Nonostante già nel 1880, il meteorologo Rollo Russell iniziò a credere che lo smog che si formava nelle città potesse avere un’influenza sull’aumento delle malattie e delle morti, poco si fece per risolvere il problema. Tuttavia, verso la fine del XIX° secolo iniziò ad emergere la consapevolezza che lo smog potesse essere deleterio per la salute, e che la principale causa della nebbia densa e persistente venisse proprio dalla combustione del carbone. In ogni caso, la politica cercò di non fare emergere il problema di carattere socio-sanitario, anche perché una soluzione avrebbe imposto una drastica cura, che riguardava la sostituzione del carbone sia domestico che industriale, mettendo mano ad una riforma energetica costosa e avversa agli industriali del carbone. Il silenzio proseguì fino al Dicembre 1952 quando per condizioni meteorologiche particolari, Londra fu avvolta da una nebbia fitta e maleodorante che si impossessò della città per qualche giorno. In quel periodo si verificò un repentino aumento dell’inquinamento atmosferico causato dallo stazionamento dell’anticiclo delle Azzorre che creò un’inversione termica sulla città, creando uno strato di aria fredda al suolo e uno di aria calda superiore con l’assenza di vento. L’aria calda a contatto con quella fredda creava una rugiada, facendo nascere una massiccia quantità di umidità che si mescolava agli inquinanti della combustione del carbone presenti nell’ambiente. Inoltre, la permanenza dell’aria fredda spinse ad aumentare l’uso del carbone per il riscaldamento peggiorando la situazione. Un altro fattore concomitante da tenere presente è che il carbone disponibile in Inghilterra era di pessima qualità, in quanto il migliore veniva venduto all’estero, e questo faceva si che bruciando un combustibile con alto contenuto di zolfo si liberasse nell’aria una grande quantità di anidride solforosa. Si creò quindi una coltre spessa dai 100 ai 200 metri che ammorbò l’aria sia all’esterno degli edifici che all’interno, riducendo la visibilità nei trasporti ma anche per la circolazione dei pedoni. Le vittime, nell’immediata vicinanza ai giorni del grande smog, furono 4000 solo a Londra ma, nei periodi successivi ne furono censiti circa 12.000 che potevano essere ricondotte a questo fenomeno, con l’aggiunta di circa 100.000 ammalati. Nei quattro giorni sopra detti furono rilasciate nell'atmosfera enormi quantità delle seguenti sostanze impure: - 1 000 tonnellate di particelle di fumo - 140 tonnellate di acido cloridrico - 14 tonnellate di composti di fluoro - 370 tonnellate di anidride solforosa convertite in 800 tonnellate di acido solforico Nel 1954 il ministero della salute, a fronte dell’aumento statisticamente così consistente dei morti e degli ammalati di malattie respiratorie, avanzò l’ipotesi che potesse trattarsi di un’influenza. Questi ipotesi, non si sa se spinta da interessi economici di parte, fu smentita successivamente attraverso l’osservazione della medicina generale della zona di Londra e della situazione vaccinale della popolazione, portando ad una conferma che il fenomeno era stato causato dallo smog. Il governo di allora, presieduto da Winston Churchill, cercò una via d’uscita difronte alle informazioni scientifiche presentate dal ministero della salute, per evitare una trasformazione sociale ed industriale che non sarebbe stata gradita agli elettori.Questa trasformazione contemplava: - l’abbandono dell’uso del carbone nelle abitazioni e nelle fabbriche per passare al gas, che avrebbe comportato la fine del particolato proveniente dal carbone e presente nell’aria, con una qualità della stessa in deciso miglioramento- la conversione del combustibile nelle macchine industriali - lo spostamento delle fabbriche fuori dalle città. Il 5 Luglio 1956 il parlamento Britannico promulgò la legge denominata Clean Act, che fu firmata dalla Regina Elisabetta, restando in vigore fino al 1964. Questa legge, in quanto la prima di carattere ambientale, resterà una pietra miliare nel campo del controllo della qualità dell’aria e delle emissioni inquinanti, nonostante, nei decenni successivi, fu oggetto più volte di implementazione e aggiornamento.

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https://www.arezio.it/ - Nuovi Impianti fotovoltaici sulle Sedi delle Volvo Trucks Italia
Marco Arezio - Consulente materie plastiche Nuovi Impianti fotovoltaici sulle Sedi delle Volvo Trucks Italia
Ambiente

Un accordo di collaborazione tra Plenitude e Volvo porterà all'installazione di impianti solari Plenitude (Eni) e Volvo Trucks Italia hanno firmato un accordo per l’installazione di 5 nuovi impianti fotovoltaici che contribuiranno ad alimentare con energia rinnovabile, già a partire da quest’anno, altrettanti concessionari Volvo Truck Center nel Nord Italia. Il progetto avrà una capacità produttiva di 550.000 kWh annui e permetterà a Volvo Trucks Italia di migliorare l’efficienza energetica delle proprie sedi nell’ottica di una maggiore sostenibilità.La produzione di energia rinnovabile consentirà di evitare emissioni di CO2 per circa 220 tonnellate annue. L’accordo prevede, oltre all’installazione, anche la gestione, la manutenzione degli impianti per i primi 5 anni e lo sviluppo di un sistema di monitoraggio continuo delle performance. Gli impianti saranno installati presso i Volvo Truck Center delle città di Bergamo (Headquarter), Venezia, Brescia, Torino e Padova. Pasquale Cuzzola, Direttore Retail Italian Market di Plenitude, ha dichiarato: “Questa partnership è in linea con la strategia di Plenitude di creare valore attraverso la transizione energetica e di azzerare, entro il 2040, le emissioni nette di CO2 attraverso l’intera catena del valore, incluse quelle dei nostri clienti. Siamo quindi lieti di mettere a disposizione delle sedi di Volvo Trucks Italia le nostre soluzioni in ambito rinnovabile e impianti tecnologicamente avanzati che consentiranno un uso più efficiente e sostenibile dell’energia e di ridurre anche i relativi costi”. Giovanni Dattoli, Managing Director di Volvo Trucks Italia, ha commentato: “Volvo Trucks sta investendo a 360° nella sostenibilità e questo progetto in Italia si inserisce a pieno nella nostra strategia di decarbonizzazione, che riguarda non solo i veicoli che commercializziamo ma anche le sedi in cui operiamo. Siamo lieti dell’accordo con Plenitude, partner d’eccellenza che ci accompagnerà in un percorso virtuoso permettendoci di dare un contributo concreto e sostenibile all'ambiente”. Info Eni

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https://www.arezio.it/ - Finanziato il Progetto di Costruzione di 2000 Punti di Ricarica ad Alta Potenza
Marco Arezio - Consulente materie plastiche Finanziato il Progetto di Costruzione di 2000 Punti di Ricarica ad Alta Potenza
Ambiente

Italia, Spagna, Francia, Austria, Germania, Portogallo, Slovenia e Grecia saranno interessate all’incremento dei punti di ricarica per la mobilità elettricaLa corsa verso l’adeguamento della rete di ricarica elettrica per le auto segna un punto a favore degli utenti, che fra un po' di anni dovranno fare i conti prevalentemente con la mobilità elettrica. Se i paesi del nord Europa sono un po' più avanti sullo sviluppo della rete delle colonnine di ricarica, i paesi del sud Europa stanno rincorrendo, una vera corsa contro il tempo per adeguarsi alle necessità future. Per questo motivo la Comunità Europea da deciso di finanziare un progetto per l’istallazione di 2000 nuove colonnine di ricarica ad alta potenza in otto paesi dell’Unione. Infatti, la Commissione Europea e l’italiana Cassa Depositi e Prestiti (CDP) hanno destinato a Be Charge, società controllata interamente da Plenitude (Eni), oltre 100 milioni di euro per la realizzazione entro il 2025 di una delle più grandi reti di ricarica ad alta velocità in Europa. L’obiettivo dell’operazione è favorire lo sviluppo delle infrastrutture dedicate alla mobilità elettrica e accelerare la transizione energetica. Nel dettaglio, CDP, come istituto nazionale di promozione, ha concesso un finanziamento di 50 milioni a cui si aggiungono altri 50,4 milioni a fondo perduto assegnati dalla Commissione Europea per la realizzazione di una rete di oltre 2.000 punti di ricarica “ultra-fast”, con una potenza minima di 150kW lungo i principali corridoi di trasporto europei di otto Paesi: Italia, Spagna, Francia, Austria, Germania, Portogallo, Slovenia e Grecia. Il contributo della Commissione Europea è stato assegnato lo scorso settembre dall’Agenzia Esecutiva Europea per il Clima, l’Infrastruttura e l’Ambiente (CINEA) all’interno del Connecting Europe Facility (CEF) e precisamente nell’ambito dell’Alternative Fuels Infrastructure Facility. Cassa Depositi e Prestiti ha agito come partner esecutivo della Commissione Europea (implementing partner) per l’Italia, confermando il proprio ruolo di facilitatore nell’accesso ai programmi e alle risorse europee per le imprese italiane e di finanziatore a sostegno dello sviluppo delle infrastrutture dei trasporti e della mobilità sostenibile. Adina Vălean, Commissaria europea per i Trasporti, ha dichiarato: "Con l'Alternative Fuels Infrastructure Facility, intendiamo sostenere la rapida introduzione delle infrastrutture di ricarica. In questo modo si consentirà la diffusione sul mercato di veicoli a zero e a basse emissioni e, in ultima analisi, di trasformare in realtà i nostri obiettivi climatici. Il progetto Be Charge fornirà un contributo positivo, creando una rete di punti di ricarica ultraveloci per i veicoli elettrici in otto Stati membri. Una rete così estesa rassicurerà ulteriormente i consumatori, incoraggiandoli a ricaricare le loro auto in tutta l'UE e promuovendo così la mobilità elettrica". Stefano Goberti, Amministratore Delegato di Plenitude, ha dichiarato: “I fondi assegnati sono un evidente riconoscimento dell’impegno di Be Charge nel settore della mobilità elettrica che rappresenta un tassello importante della strategia di Plenitude a sostegno della transizione energetica. Questa operazione si inserisce nel piano della Società, che conta oggi oltre 15.000 punti di ricarica, e ha l’obiettivo di sviluppare una infrastruttura europea ad alta potenza per veicoli elettrici e di raddoppiare la propria rete entro il 2026 raggiungendo 30.000 punti”. Massimo Di Carlo, Vicedirettore Generale e Direttore Business di CDP, ha dichiarato: “Siamo orgogliosi di aver concluso questo accordo di finanziamento a favore del progetto di Be Charge per sviluppare un sistema di trasporto efficiente e sostenibile e orientare sempre di più il nostro impegno verso la transizione energetica. In più, l’operazione conferma da una parte la fruttuosa collaborazione e le sinergie con tutti gli stakeholder europei e dall’altra il ruolo di CDP come facilitatore nell’accesso alle risorse dell’Unione Europea per la realizzazione di progetti sostenibili, dove quello di Be Charge ne è un virtuoso esempio”.Info: ENI

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https://www.arezio.it/ - John Muir il Padre dei Movimenti Ambientalisti
Marco Arezio - Consulente materie plastiche John Muir il Padre dei Movimenti Ambientalisti
Ambiente

La sua associazione, nata nel 1892, ha anticipato di quasi un secolo il WWF, Greenpeace e molte altre sigle"Nessun tempio fatto dalle mani umane può competere con Yosemite", e "lo Yosemite è il più grande di tutti i templi della Natura." John Muir era un uomo testardo, precursore in tempi non sospetti, della necessità di preservare la natura, senza compromessi e senza piegarsi alle logiche del denaro. Un amante fedele delle montagne americane, in particolar modo della valle dello Yosemite, nell’area montuosa della Sierra Nevada, dove Muir scoprì un paradiso naturale, già allora messo in pericolo dallo sfruttamento dei suoi prati per l’allevamento. John Muir nasce a Dunbar, sulla costa Scozzese, non lontano da Edimburgo il 21 Aprile del 1828 ed emigrò negli Stati Uniti, con la sua famiglia, nel 1849 con l’intento di aprire una fattoria che desse sostentamento e benessere a tutti. Frequentò l'Università del Wisconsin-Madison, ma rimase folgorato dalle lezioni di botanica e decise di percorrere un viaggio a piedi, di migliaia di chilometri, dall’Indiana alla florida negli anni 1866-67. Nel Marzo del 1868 venne a conoscenza di un luogo chiamato Yosemite e volle visitarlo, creando in lui uno stupore così grande da convincerlo a ritornarci in modo stabile, trovando un’occupazione presso le ferrovie locali. Nel 1880 sposò Louisa Wanda Strentzel ed entrò stabilmente nel ranch di famiglia in cui lavorò in modo continuativo, proseguendo ad occuparsi attivamente anche della protezione della natura. Il 30 Settembre del 1890 riuscì a far promulgare una legge, per la tutela ambientale, inserendo l’area dello Yosemite come zona di interesse naturalistico nazionale, facendo così costituire il parco nazionale dello Yosemite Valley, sotto il controllo dello stato della California. Due anni più tardi, nel 1892, John Muir, costituisce l’associazione ambientalista Sierra Club, di cui divenne il primo presidente, carica che mantenne fino alla sua morte nel 1914. Nella sua vita fu un vero combattente nella difesa integrale delle aree montane, tanto che fu costretto più di una volta a scomodare amicizie influenti, come il presidente degli Stati Uniti Roosevelt, per tentare di bloccare progetti che potessero modificare l’habitat naturale. Oltre all’avanzare delle ferrovie, in quell’epoca venne progettata la costruzione di una diga sul fiume Toulumne, che avrebbe permesso di creare una riserva d’acqua per la città di San Francisco, comportando però lo scavo e l’allagamento della valle di Hetch Hetchy, che Muir paragonò per bellezza alla Yosemite Valley. Attraverso l’associazione Sierra Club diede battaglia legale per fermare il progetto, esortando il presidente degli Stati Uniti a bloccare l’iniziativa. Le cause legali si susseguirono negli anni, ma con l’elezione del nuovo presidente americano, Woodrow Wilson, Muir perse la battaglia e la costruzione della diga si tramutò in legge il 19 Dicembre 1913. I sostenitori del Sierra Club ricorderanno la morte di Muir, avvenuta l’anno successivo nel 1914, come conseguenza del dolore, che gli spezzò il cuore, per aver perso la sua battaglia ambientalista, ma clinicamente morì per una polmonite. John Muir operò in periodo in cui l’industrializzazione, la chimica e lo sviluppo demografico ed economico non aveva ancora creato un abbraccio di morte con la natura, ma lui capì, quasi un secolo prima che nascessero le più conosciute sigle ambientaliste moderne, a partire dal WWF o da Greenpeace e molte altre, che la natura va protetta senza compromessi.

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https://www.arezio.it/ - Nasce un Nuovo Istituto di Ricerca sull’Alimentazione Sostenibile
Marco Arezio - Consulente materie plastiche Nasce un Nuovo Istituto di Ricerca sull’Alimentazione Sostenibile
Ambiente

La ricerca scientifica applicata al settore agroalimentare per minimizzare l’impatto ambientaleForse non ci soffermiamo abbastanza nell’analizzare la stretta correlazione tra il depauperamento delle risorse naturali rispetto al sostentamento alimentare di una popolazione mondiale in crescita continua. Le coltivazioni intensive richiedono acqua, concimi chimici, diserbanti, energia in quote sempre maggiori, anno dopo anno, portando un impatto ambientale estremamente negativo. La filiera della carne, poi, è responsabile delle coltivazioni estensive di foraggio, della deforestazione in alcuni paesi, dell’uso spropositato di acqua, del suolo, della produzione di inquinanti di derivazione animale. Anche le multinazionali che operano del settore alimentare stanno capendo che, una filiera alimentare più sostenibile, è la chiave per contribuire al bilanciamento climatico e alla soddisfazione dei propri clienti. Per questi motivi Nestlé ha ufficialmente inaugurato l'Istituto di scienze agrarie, per aiutare a far progredire i sistemi alimentari sostenibili fornendo soluzioni basate sulla scienza in agricoltura. Intervenendo all'inaugurazione, Paul Bulcke, presidente di Nestlé, ha dichiarato: "Abbiamo coltivato relazioni dirette con generazioni di agricoltori di tutto il mondo. Per continuare a fornire alle persone alimenti gustosi, nutrienti e convenienti, dobbiamo passare insieme a un sistema alimentare più sostenibile. Il nuovo istituto di ricerca rafforzerà la nostra esperienza e utilizzerà la nostra rete globale per sostenere le comunità agricole e proteggere il nostro pianeta". Con i sistemi alimentari globali sotto pressione, vi è un urgente bisogno di accelerare nuovi approcci che garantiscano un approvvigionamento alimentare sostenibile, per una popolazione mondiale in crescita, contribuendo al tempo stesso ai mezzi di sussistenza degli agricoltori. Nel nuovo istituto, gli esperti Nestlé esaminano e sviluppano soluzioni in aree di interesse chiave, come la scienza delle piante, i sistemi agricoli e il bestiame da latte. Si basa, inoltre, sull'esperienza esistente dell'azienda nel settore delle scienze vegetali nel caffè e nel cacao. Per molti anni, gli scienziati delle piante Nestlé hanno contribuito ai piani di approvvigionamento sostenibile di cacao e caffè di Nestlé. Nestlé sta ora rafforzando questa competenza e ampliandola ad altre colture, tra cui legumi e cereali. L'istituto sta inoltre lavorando con gli agricoltori per sperimentare pratiche di agricoltura rigenerativa, per migliorare la salute del suolo e incoraggiare la biodiversità. Inoltre, gli esperti esplorano nuovi approcci nell'allevamento lattiero-caseario, che hanno il potenziale per ridurre le emissioni di gas serra nei settori dell'alimentazione delle mucche e della gestione del letame. Jeroen Dijkman, Head of Nestlé Institute of Agricultural Sciences, ha dichiarato: "Il nostro obiettivo è identificare le soluzioni più promettenti per promuovere la produzione di materie prime nutrienti, riducendo al minimo il loro impatto ambientale. Adottiamo un approccio olistico e consideriamo diversi fattori, tra cui l'impatto sulla resa, l’impronta di carbonio, la sicurezza alimentare e i costi, nonché la fattibilità dell'aumento di scala".Come parte della rete globale di ricerca e sviluppo di Nestlé, l'istituto collabora strettamente con partner esterni tra cui agricoltori, università, organizzazioni di ricerca, startup e partner industriali per valutare e sviluppare soluzioni basate sulla scienza. Il nuovo istituto ribadisce l'impegno dell'azienda a rafforzare l'ecosistema di innovazione unico della Svizzera. Intervenendo all'inaugurazione ufficiale, Valérie Dittli, consigliere di Stato del cantone svizzero di Vaud, ha dichiarato: "Il nuovo istituto sta rafforzando il cantone di Vaud come centro di eccellenza per la ricerca e l'istruzione in agricoltura e alimentazione. Contribuisce, inoltre, agli sforzi che sono in corso per sostenere gli agricoltori di fronte ai cambiamenti climatici. L'agricoltura è al centro di un'alimentazione di qualità e, nel Canton Vaud, possiamo contare su un ecosistema innovativo che riunisce partner tra cui professionisti agricoli, scuole di istruzione superiore e centri di ricerca privati come quello di Nestlé." Oltre alle sue nuove strutture presso Nestlé Research in Svizzera, l'istituto incorpora un'unità di ricerca scientifica sulle piante esistente in Francia, e aziende agricole con sede in Ecuador, Costa d'Avorio e Tailandia, nonché partnership con aziende agricole di ricerca.Fonte: Nestlé

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https://www.arezio.it/ - La Tecnologia Satellitare per il Controllo dei Progetti di Riforestazione
Marco Arezio - Consulente materie plastiche La Tecnologia Satellitare per il Controllo dei Progetti di Riforestazione
Ambiente

Quando ambiente e scienza spaziale si uniscono per migliorare la nostra vitaI progetti di decarbonizzazione ad opera delle aziende internazionali produttrici di beni o servizi, che hanno sottoscritto l’impegno alla compensazione delle emissioni di CO2, sono spesso realizzati in zone non sempre di comodo accesso, oppure lontane dalle aziende responsabili dei progetti. Infatti, la piantumazione di vaste aree di territorio non può essere solo sulla carta, sbandierate come una chiave di marketing per convincere i clienti e i consumatori delle buone intenzioni circa la decarbonizzazione degli impatti sull'ambiente delle aziende. La riforestazione deve essere iniziata, attraverso la messa a dimora delle specie arboree corrette, nelle quantità stabilite per creare il bilanciamento carbonico, ma deve anche essere seguita, passo dopo passo essendo un progetto su un medio-lungo periodo. Per queste necessità la tecnologia satellitare ci viene incontro, ci semplifica il lavoro, in quanto è possibile realizzare immagini estremamente ravvicinate dell’area, fino a 30 cm. e raccogliere le informazioni corrette sull’andamento del progetto e sullo stato di salute dell’area piantumata. Questa tecnologia, attraverso i satelliti Pléiades Neo di Airbus, ha permesso alla Nestlé di potere creare un controllo efficacie sulle aree di approvvigionamento del proprio caffè, situate nelle provincie di Ranong e Chumphon nel sud della Thailandia. Questo approccio aiuterà Nestlé a certificare la quantità di carbonio che sta rimuovendo dall'atmosfera attraverso il suo Global Reforestation Program, un pilastro fondamentale del suo progetto per il raggiungimento delle emissioni zero entro il 2050. Magdi Batato, vicepresidente esecutivo e responsabile delle operazioni di Nestlé, ha dichiarato: "Le foreste sono spesso soluzioni attive basate solo sulla natura, perché utilizziamo la natura come soluzione per contribuire a ridurre le nostre emissioni. Coltivare alberi vicino alle nostre località di approvvigionamento del caffè è una parte essenziale della nostro programma a favore del clima, oltre alla decarbonizzazione delle nostre attività partendo dai fornitori delocalizzati. Attraverso il nostro programma di riforestazione globale, miriamo a piantare e far crescere 200 milioni di alberi presso i nostri punti di fornitura entro il 2030. Il nostro obiettivo è rimuovere 2 milioni di tonnellate di CO2e attraverso questi progetti”. La tecnologia satellitare Pléiades Neo di Airbus, utilizzato nelle due provincie Tailandesi, monitorerà circa 150.000 alberi da ombra nelle fattorie da cui Nestlé si rifornisce di caffè, per un periodo di 20 anni. Gli alberi da ombra aiutano a prevenire la sovraesposizione del caffè al sole, aumentano la resa e la produttività a lungo termine, rimuovendo anche il carbonio dall'atmosfera. Sulla base di questa esperienza, Nestlé determinerà se espandere l'approccio ad altre sedi in tutto il mondo. L’uso di questi satelliti, utilizzati anche per il controllo della deforestazione dilagante in molti paesi dell’America Latina e del sud est asiatico, trovano adesso un’altra proficua applicazione per monitorare la riforestazione delle aree di maggiore interesse bioclimatico.Fonte Nestlé

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https://www.arezio.it/ - Rifiuti in Discarica: la Gestione del Rischio ATEX
Marco Arezio - Consulente materie plastiche Rifiuti in Discarica: la Gestione del Rischio ATEX
Ambiente

Atmosphere Explosive (ATEX) è una miscela pericolosa ed esplosiva che si forma all’interno delle discaricheLe discariche, che ospitano prodotti non riciclabili e biodegradabili, non sono degli impianti semplici da gestire a causa di fattori interni ed esterni che è bene conoscere, in modo da capire e valutare il rischio presente nell’area del sito di conferimento e quello per gli insediamenti urbani limitrofi. Nel passato, prima che prendesse piede in modo strutturato il riciclo meccanico dei rifiuti, la discarica era il luogo dell’oblio dei prodotti scartati, la soluzione allo smaltimento di ogni rifiuto che veniva prodotto dall’uomo. Un ammasso indecifrabile di materiali eterogenei che venivano accatastati e ricoperti quando la discarica era piena, senza troppo preoccuparsi dell’azione chimica che i rifiuti continuavano a produrre nel corso degli anni. Anche le tecnologie di protezione del suolo e del sottosuolo, al fine di evitare l’inquinamento dei terreni e delle falde acquifere, lasciavano abbastanza a desiderare, con situazioni di inquinamento scoperte molti anni dopo. Oggi, la tecnologia di costruzione e di gestione di una discarica ha sicuramente fatto molti passi avanti, tenendo inoltre conto del positivo apporto a monte del sistema di riciclo dei rifiuti, che ha un po' ridotto e diversificato la pressione del materiale che entra in discarica. Inoltre, le tecnologie di rivestimento e contenimento degli agenti inquinanti del suolo, hanno permesso un approccio al problema discariche più professionale e più ecologico. Nonostante ciò, il rifiuto che viene depositato continua ad avere una vita propria all’interno dell’ammasso stratificato, in virtù dei processi organici che lo scarto produce per molti anni, innescando problematiche da conoscere e tener presente. Una di queste è il cosiddetto fenomeno ATEX (Atmosphere Explosive) che rappresenta il pericolo di esplosione che si genera a causa della formazione di biogas negli strati interni dei rifiuti. Il biogas che scaturisce è composto principalmente da Metano (CH4), e può raggiungere anche il 65% in base alla composizione del mix dei materiali depositati, all’età e alle condizioni della discarica. Un altro fattore da tenere presente, nel calcolo del rischio esplosivo ATEX, è la possibile presenza di rifiuti infiammabili, come materie plastiche non riciclabili o residui chimici solidi o liquidi, che possono, in caso di esplosione, amplificare la forza dirompente del metano rilasciato. Si sono quindi sviluppati impianti di captazione dei gas prodotti internamente ad una discarica che, in base alle tecnologie applicate e al grado di ingegnerizzazione degli impianti, hanno la possibilità di estrarre dal 50 al 90% dei gas esplosivi contenuti. Ma quando si può verificare un’esplosione in una discarica? Ci sono dei fenomeni scatenanti diretti, ed alcuni indiretti, che bisogna monitore per ridurre al minimo il problema. Tra quelli diretti possiamo citare l’autocombustione dei materiali in presenza di condizioni particolari, come un’elevata temperatura interna del depositato, una presenza elevata di metano e una combinazione di rifiuti adatti al fenomeno auto combustivo. Tra i fenomeni indiretti possiamo annoverare le operazioni di lavoro nell’area della discarica, come l’uso di attrezzature che potrebbero provocare scintille, come mole, flessibili rotanti, le azioni di saldatura, i motori termici accesi, la presenza di linee elettrice e i fenomeni di vandalismo. Come si forma il rischio ATEX Per schematizzare, possiamo dire che i principali fattori che influenzano la migrazione dei gas dai rifiuti sono la diffusione, la pressione e la permeabilità Partiamo quindi dal presupposto che il biogas, che si forma all’interno delle discariche, ha un peso specifico simile al quello dell’aria e, per questo motivo, si crea una migrazione dagli strati interni verso l’esterno della superficie della discarica. La componente principale del biogas, come abbiamo visto, è formata da metano, gas altamente infiammabile ed esplosivo se compresso in ambiente chiuso, che nelle discariche mediamente si può trovare in una concentrazione intorno al 50%. Di per sé non è un valore alto in assoluto ma non si può escludere che non generi esplosioni. Altri due componenti da tenere presente per il calcolo del rischio ATEX sono l’ossigeno e l’idrogeno solforato, che potrebbero concorrere ad amplificare il fenomeno. Per quanto riguarda l’ossigeno, questo è necessario per i fenomeni anaerobici della produzione di metano, quindi, pur potendo essere intercettato in superficie, il metano libero non ha, normalmente, concentrazioni sufficienti da creare esplosioni a contatto con l’ossigeno. Per quanto riguarda l’idrogeno solforato, composto che si forma nei processi iniziali della biodegradazione dei rifiuti, per quanto normalmente di bassa quantità, non essendo captato in modo strumentale, è necessario considerarlo nella valutazione di un ipotetico rischio di esplosione. Come eliminare i gas potenzialmente esplosivi per ridurre il rischio ATEX Le discariche, in cui è previsto lo smaltimento anche dei rifiuti organici, devono essere dotate di impianti per la captazione e l’estrazione dei gas esplosivi che vengono formati all’interno della massa dei rifiuti, e la loro permanenza in piena efficienza deve durare per tutto il tempo che esisterà la discarica, anche se non più operativa. Il gas raccolto può essere utilizzato come fonte energetica, ma, in caso non esistessero impianti per il suo riciclo, dovrà essere smaltito in apposite camere di combustione. In ultimo dobbiamo considerare la CO2, gas più pesante dell’aria, che viene prodotto anch’esso nella biodegradazione dei rifiuti e che va a depositarsi negli strati più bassi del cumulo. Pur non essendo in diretta relazione con il rischio ATEX, lo segnaliamo in quanto gas asfissiante, che può provocare la morte di uomini ed animali, quindi sarà necessario prevedere la sua captazione ed eliminazione. Traduzione automatica. Ci scusiamo per eventuali inesattezze. Articolo originale in Italiano.

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https://www.arezio.it/ - Nuovi Impianti Eolici Offshore al Largo della Sardegna e del Lazio
Marco Arezio - Consulente materie plastiche Nuovi Impianti Eolici Offshore al Largo della Sardegna e del Lazio
Ambiente

Tre impianti eolici offshore da quasi 2 GW per produrre elettricità in modo sostenibileUna nuova partnership di società specializzate nelle energie rinnovabili, in particolare nel campo dell’eolico offshore, è stata costituita per realizzare tre parchi eolici galleggianti al largo delle coste Sarde e Laziali, a quasi 30 Km. dalle coste con circa 2 GW di potenza. Con minori vincoli ambientali dei parchi eolici sulla terraferma, quelli galleggianti possono dare una risposta più veloce in termini di procedure autorizzative e permettono di sfruttare meglio i venti che si muovono sulla superficie del mare. Con questo accordo il consorzio diventa uno dei maggiori operatori del settore in Italia con progetti per una capacità totale di circa 3 GW.La nuova partnership è composta da GreenIT, la joint venture italiana per le energie rinnovabili tra Plenitude (Eni) e CDP Equity (Gruppo CDP), e Copenhagen Infrastructure Partners (CIP attraverso i suoi Flagship Funds), che hanno firmato un accordo per lo sviluppo di tre parchi eolici offshore galleggianti nel Lazio e in Sardegna. L'intesa prevede lo sviluppo di un parco eolico nel Lazio, al largo di Civitavecchia, per una capacità complessiva fino a 540 MW e di altri due impianti situati al largo di Olbia (Sardegna), con una potenza di circa 500 MW e 1.000 MW. I tre progetti dovrebbero generare circa 5 TWh/anno e saranno operativi tra il 2028 e il 2031, una volta completato l'iter autorizzativo e la successiva fase di costruzione. L’intero portafoglio eolico offshore italiano della partnership raggiungerà una potenza di quasi 3 GW con una produzione annua di circa 7 TWh di energia rinnovabile, in grado di soddisfare i consumi elettrici di quasi 2,5 milioni di famiglie, contribuendo così agli obiettivi di decarbonizzazione del Piano Nazionale Integrato per l'Energia e il Clima 2030. I tre parchi eolici offshore utilizzeranno fondazioni galleggianti e soluzioni tecniche innovative volte a minimizzare l'impatto ambientale e visivo e beneficeranno di sinergie tecnologiche e logistiche con le altre iniziative eoliche offshore gestite nell'ambito della stessa partnership. Gli impianti verranno sviluppati da un team di lavoro congiunto, affiancato da Copenhagen Offshore Partners, fornitore esclusivo di CIP per l’implementazione dell'eolico offshore, e da NiceTechnology e 7 Seas Wind Power, società italiane con provata esperienza nel comparto offshore, che hanno già collaborato con GreenIT e CIP allo sviluppo di altri due progetti in Sicilia e Sardegna. Questo nuovo accordo rappresenta un ulteriore tassello strategico e un impegno preciso per il rafforzamento del settore eolico offshore galleggiante in Italia, fornendo un contributo significativo verso un futuro a basse emissioni di carbonio e incoraggiando la crescita della filiera produttiva locale.Fonte ENI

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https://www.arezio.it/ - Un Nuovo Impianto per Energia Elettrica Rinnovabile dalle Onde Marine
Marco Arezio - Consulente materie plastiche Un Nuovo Impianto per Energia Elettrica Rinnovabile dalle Onde Marine
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Le onde sono sempre in movimento e per questo sono un’ottima opportunità per produrre energia rinnovabileA volte le cose le abbiamo sotto gli occhi ma non le vediamo, così come il mare lo abbiamo sempre visto in una chiave un po' ristretta, utilizzato per la navigazione, la pesca, le vacanze, ma quasi mai l’abbiamo visto come fonte di energia. Se l’energia rinnovabile prodotta dal vento o dal sole può avere dei cali produttivi, a causa di periodi di assenza di correnti ventose, o a causa della copertura del cielo, che riduce l’irraggiamento solare, quella del moto ondoso è, tra quelle citate, la più costante e continuativa. Da qualche anno si stanno facendo esperimenti su come poter creare energia rinnovabile elettrica dal mare, minimizzando l’impatto ambientale e dando autonomia energetica anche alle piccole isole, lontane dalla rete elettrica che si produce sulla terraferma.La crisi energetica scaturita, prima dalla pandemia di Covid e successivamente dalla guerra Russo-Ucraina, ha dato una potente accelerazione sullo sfruttamento e sullo studio di nuovi sistemi sostenibili per produrre energie rinnovabili.  Infatti, il mare rappresenta una delle principali fonti di energia rinnovabile non valorizzate del Pianeta: ENEA e RSE hanno calcolato che se si riuscisse a sfruttare l’energia fornita dagli oceani (moto ondoso, maree, salinità e gradiente termico) si otterrebbero ben 80 mila TWh, vale a dire circa cinque volte il fabbisogno annuale di energia elettrica del mondo intero. Altre stime pongono questo valore addirittura a 130 mila TWh. La sola componente del moto ondoso, nelle stime più prudenziali, è di circa 2 TW a livello globale, corrispondenti a circa 18 mila TWh all’anno, pari a quasi la domanda annuale di elettricità del pianeta. Il nostro sistema ISWEC (Inertial Sea Wave Energy Converter) fa esattamente questo: converte l’energia delle onde marine in energia elettrica, rendendola immediatamente disponibile per impianti offshore o immettendola nella rete elettrica per dare corrente a comunità costiere e piccole isole. ISWEC è stato sviluppato insieme a Wave for Energy S.r.l., spin-off del Politecnico di Torino. Il sistema è costituito da uno scafo galleggiante sigillato con al suo interno una coppia di sistemi giroscopici collegati ad altrettanti generatori. I giroscopi, grandi volani continuamente in rotazione, tendono a mantenere fisso il proprio asse di rotazione generando una forza perpendicolare all’asse per opporsi a forze esterne che tendono a modificarlo. Questo fenomeno è noto come precessione giroscopica. Le onde provocano il beccheggio dell’unità, ancorata al fondale, ma libera di muoversi e oscillare. Il beccheggio dello scafo viene intercettato dai due sistemi giroscopici: questi sono collegati ad altrettanti generatori che producono energia elettrica. Una soluzione semplice, con un cuore d’alta tecnologia. Dall’impianto pilota all’applicazione di ISWEC per l'isola di Pantelleria ISWEC è perfetto per fornire energia elettrica a isole minori non connesse alla rete elettrica principale, comunità costiere e infrastrutture offshore, come piattaforme Oil&Gas. ll primo impianto pilota è stato installato a Ravenna a marzo 2019, collegato alla nostra piattaforma PC80 e integrato con un impianto fotovoltaico. Al termine della campagna sperimentale, l’impianto è stato poi dismesso a settembre 2022. Questo tipo di applicazioni aumenta l’autosufficienza energetica di strutture situate in ambiente offshore, e magari in contesti geografici in cui l’approvvigionamento elettrico non è scontato. A febbraio 2023 Eni ha completato l’installazione del primo dispositivo ISWEC nel mar Mediterraneo, a 800 metri dalla costa di Pantelleria. I numeri di ISWEC a Pantelleria Il modello ISWEC installato al largo di Pantelleria consiste in uno scafo in acciaio, di dimensioni 8x15m che ospita il sistema di conversione dell’energia, costituito da due unità giroscopiche di più di 2 m di diametro ciascuna. Il dispositivo è mantenuto in posizione, in un fondale di 35 m, da uno speciale ormeggio di tipo autoallineante in base alle condizioni meteo-marine, composto da tre linee di ormeggio e uno swivel (giunto rotante), mentre l’energia elettrica prodotta è portata a terra mediante un cavo elettrico sottomarino. Il dispositivo potrà raggiungere i 260 kW di picco di produzione di energia da moto ondoso e avrà anche lo scopo di acquisire dati per ottimizzare la progettazione di nuovi dispositivi. Oltre che dalle onde, il mare può fornire energia pulita in molti altri modiPer studiare ed utilizzare al meglio il potenziale energetico dei mari e oceani, in collaborazione con il Politecnico di Torino, abbiamo creato MORE – Marine Offshore Renewable Energy Lab: un laboratorio interamente dedicato allo sviluppo di tecnologie per sfruttare il moto ondoso, ma anche le correnti oceaniche, le maree e il gradiente salino, oltre che per migliorare l’eolico e il solare offshore. Il nostro impegno nello sviluppo del settore delle energie rinnovabili marine è stato rafforzato dall’ingresso, come lead partner, nell’Ocean Energy Europe (OEE), la più grande organizzazione europea per lo sviluppo delle energie oceaniche. Un incarico che ci permette di contribuire alla definizione delle linee strategiche per lo sviluppo e la commercializzazione di soluzioni tecnologiche di produzione di energia rinnovabile in ambiente offshore. La sfida tecnica L’energia del moto ondoso è la più costante tra quelle rinnovabili: a differenza del sole e del vento, il mare agisce con continuità. Quest’energia è anche la più “densa” perché concentra quella prodotta dal vento e quella derivante dal riscaldamento dell’atmosfera dovuto al sole. Gli aspetti principali da risolvere associati a ISWEC erano due: la corrosione a causa della salsedine e l’ottimizzazione del funzionamento del dispositivo al variare dell’intensità delle onde. Entrambi sono stati superati poiché le parti mobili e delicate sono all’interno dello scafo sigillato, completamente isolate dall’acqua salata, mentre il funzionamento dei sistemi giroscopici che alimentano i due generatori è ottimizzato mediante un sistema che risponde alle diverse condizioni meteomarine. ISWEC presenta una componente attiva nel processo di cattura dell’energia, che viene regolata dalla velocità di rotazione del volano e dalla coppia del generatore e consente di adattare l’inerzia dello scafo alla lunghezza d’onda marina che lo investe. Questa caratteristica, implementata per la prima volta al mondo da Eni su un prototipo di larga scala, è il vero punto di discontinuità rispetto agli altri sistemi di cattura, infatti, è possibile variare l’inerzia del dispositivo come se ne modificassimo le dimensioni, ottenendo di fatto un sistema a geometria variabile virtuale. Integrazione su larga scala ISWEC è un esempio del lavoro di squadra che genera ogni nostra tecnologia proprietaria. In questo caso, una delle sfide tecnologiche più delicate da risolvere era il dimensionamento del sistema giroscopico per ottimizzarne la risposta alle condizioni locali del mare, passaggio fondamentale per sfruttare quella disponibilità costante che costituisce la caratteristica più interessante del moto ondoso. Si trattava di analizzare e incrociare fra loro grandi quantità di dati da fonti diverse, quelli metereologici e quelli relativi al funzionamento della macchina. L’aiuto è arrivato da HPC4 e HPC5, i nostri supercomputer: grazie alla loro potenza di calcolo utilizziamo modelli matematici avanzati per elaborare formule di risposta adatte a ogni situazione meteomarina. Una ulteriore aggiunta tecnologica ad ISWEC è stata quella dell’installazione di pannelli fotovoltaici sulla coperta dello scafo i quali offrono un’ampia superficie di cattura della risorsa solare. Particolarmente profonda e diversificata, inoltre, è l’integrazione fra le nostre persone e strutture e il MORE Lab. Il laboratorio, infatti, ha sede presso il Politecnico e impiega infrastrutture di ricerca del Dipartimento di Ingegneria Meccanica e Aerospaziale e si interfaccia con il Marine Virtual Lab nel Green Data Center di Ferrera Erbognone, che utilizza il supercomputer HPC5. Il MORE Lab, inoltre, fa rete anche con il sito di Pantelleria, dove ISWEC è collegato alla rete elettrica dell’isola. L’ISWEC di Pantelleria contribuisce all’obiettivo di autonomia energetica dell’isola e all’azzeramento dell’impatto paesaggistico potenzialmente causato da eventuali strutture industriali sull’isola. A pieno regime, il MORE Lab impiega circa 50 ricercatori che collaborano con nostre persone, per una rapida crescita del know-how specifico e per la finalizzazione industriale delle tecnologie. Il centro, inoltre, dispone di una vasca di prova navale e di laboratori all’avanguardia. Il Politecnico di Torino, parallelamente, ha attivato una cattedra specifica sulla “Energia dal Mare” per formare ingegneri specializzati nella progettazione, realizzazione e utilizzo delle nuove tecnologie che saranno sviluppate proprio nel laboratorio. L’impatto sull’ambiente Seppur diversi, tutti gli insediamenti marittimi si assomigliano perché hanno esigenze simili. Una piccola isola abitata non è tanto differente da una piattaforma. Per questo è possibile fornire energia elettrica da fonte rinnovabile a comunità che vivono su piccole isole. Per di più, ISWEC si può integrare perfettamente con altre soluzioni di produzione di energia rinnovabile in ambito offshore, come ad esempio l’eolico, in termini sia di valorizzazione dei sistemi di connessione alla rete elettrica sia di integrazione all’interno di un’area di mare, massimizzando la conversione di energia disponibile. Un ulteriore vantaggio di questa tecnologia è la notevole riduzione dell'impatto paesaggistico in quanto il dispositivo emerge solamente per circa 1 metro sopra il livello dell’acqua. Traduzione automatica. Ci scusiamo per eventuali inesattezze. Articolo originale in ItalianoFonte Eni

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Ambiente

Impegnare risorse e conoscenze per far rendere in modo sostenibile i terreni abbandonati dal sistema agricolo Si è parlato molto dell'utilizzo dei terreni fertili, specialmente in Brasile, per la produzione di coltivazioni che possono essere impiegate per trasformazione in biocarburanti. Il tema è molto attuale in quanto questo sistema è frequentemente additato, insieme all'allevamento intensivo degli animali da carne e alle relative superfici da destinare alla produzione di foraggio per il loro sostentamento, tra maggiori fattori di inquinamento, di deforestazione, di consumo delle risorse idriche e al negativo impatto ambientale dei prodotti chimici necessari ai vari processi. L'agricoltura, necessaria per il sostentamento della popolazione mondiale, sta già facendo i conti con i cambiamenti climatici che stanno causando diffuse desertificazioni, siccità, improvvise alluvioni e migrazioni epocali, quindi, l'idea di un incremento dell'utilizzo dei terreni fertili per la produzione di carburanti verdi sarebbe davvero pericoloso. In questa situazione si inserisce un sistema produttivo di biocarburanti, da distribuire nelle stazioni di rifornimenti, proveniente dai rifiuti e oli vegetali con un'attenzione alle problematiche sopra esposti. Il nuovo carburante in distribuzione si chiama HVOlution, ed è già disponibile in 50 Eni Live Station in Italia, ed entro fine marzo lo sarà in 150. Prodotto da materie prime di scarto e residui vegetali, e da olii generati da colture non in competizione con la filiera alimentare, è già utilizzabile dalle motorizzazioni omologate. HVOlution, il primo diesel di Eni Sustainable Mobility prodotto con 100% di materie prime rinnovabili (ai sensi della Direttiva (UE) 2018/2001 “REDII”), è in vendita in 50 stazioni di servizio Eni e sarà disponibile a breve, entro marzo 2023, in 150 punti vendita in Italia. HVOlution è un biocarburante che viene prodotto da materie prime di scarto e residui vegetali, e da olii generati da colture non in competizione con la filiera alimentare. HVOlution può contribuire all’immediata decarbonizzazione del settore dei trasporti anche pesanti, tenuto conto delle emissioni allo scarico, perché utilizzabile con le attuali infrastrutture e in tutte le motorizzazioni omologate, di cui mantiene invariate le prestazioni. Eni è in grado di offrire ai propri clienti questo innovativo biocarburante grazie all’investimento realizzato sin dal 2014 con la trasformazione delle raffinerie di Venezia e Gela in bioraffinerie, che dalla fine del 2022 sono palm oil free. La tecnologia proprietaria Ecofining™ consente, infatti, di trattare materie prime vegetali di scarto e olii non edibili per produrre biocarburante HVO (Hydrotreated Vegetable Oil, olio vegetale idrogenato) di cui Eni Sustainable Mobility è il secondo produttore in Europa. HVOlution è un biocarburante composto al 100% da HVO puro. Prima della commercializzazione nelle stazioni di servizio Eni, l’HVO in purezza è stato utilizzato da diversi clienti, i quali hanno movimentato dai mezzi per la movimentazione dei passeggeri a ridotta mobilità in ambito aeroportuale fino ai veicoli commerciali della logistica; inoltre, addizionato al gasolio, dal 2016 il biocarburante HVO è presente al 15% nel prodotto Eni Diesel +, disponibile in oltre 3.500 stazioni di servizio in Italia. Stefano Ballista, amministratore delegato di Eni Sustainable Mobility, ha dichiarato: “Il biocarburante puro HVOlution ha un ruolo fondamentale perché già da oggi può dare un contributo importante alla decarbonizzazione della mobilità, anche del trasporto pesante. Questo prodotto arricchisce l’offerta nelle stazioni di servizio, affiancandosi all’attuale proposta di prodotti low-carbon, come le ricariche elettriche, e di servizi per le persone in mobilità: obiettivo di Eni Sustainable Mobility è integrare gli asset industriali e commerciali lungo tutta la catena del valore, dalla disponibilità della materia prima fino alla vendita di prodotti decarbonizzati al cliente finale.” Eni ha siglato accordi e partnership che permettono di valorizzare gli scarti e i rifiuti utilizzandoli come feedstock per la produzione di biocarburanti come HVOlution. In diversi paesi dell’Africa tra i quali Kenya, Mozambico e Congo, Eni sta sviluppando una rete di agri-hub in cui verranno prodotti olii vegetali in grado di crescere in terreni marginali e aree degradate e non in competizione con la filiera alimentare e, al tempo stesso, di creare opportunità di lavoro sul territorio. Recentemente, dal Kenya è arrivato nella bioraffineria di Gela il primo carico di olio vegetale prodotto nell’agri-hub di Makueni, mentre a Venezia è arrivato il primo carico di olii di frittura esausti. L’obiettivo è di coprire il 35% dell’approvvigionamento delle bioraffinerie Eni entro il 2025. Traduzione automatica. Ci scusiamo per eventuali inesattezze. Articolo originale in Italiano. Fonte: ENI

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