La decarbonizzazione del trasporto marittimo è uno tra i molti punti da affrontare se si vuole, in modo definitivo e programmato, arrivare alla totale mobilità sostenibiledi Marco ArezioLa fotografia attuale del trasporto marittimo, sia commerciale che civile, vede il costante transito dei cargo, tra un continente e l'altro, che consumano migliaia di tonnellate di carburante per viaggio, quota di consumo che si deve moltiplicare per le migliaia di navi presenti costantemente sui mari, e moltiplicati per centinaia di migliaia di viaggi all'anno. Questa enorme, incredibile, quantità di carburanti fossili, potrebbe venire sostituita da biocarburanti che provengono dalla lavorazione degli scarti della raccolta differenziata, dagli scarti animali e vegetali. Un progetto in questo senso è stato iniziato attraverso l'impegno di una società operante nel settore dei biocarburanti, che ha firmato un contratto di fornitura di propellenti verdi per la navigazione marittima.Infatti, Eni Sustainable Mobility e Saipem hanno firmato un Memorandum of Understanding (MoU) con l’obiettivo di utilizzare carburanti di natura biogenica sui mezzi navali di perforazione e costruzione di Saipem, con particolare riferimento alle operazioni nell’area del Mare Mediterraneo. Saipem ha una flotta che opera in tutto il mondo che è composta da 45 mezzi navali per la costruzione e la perforazione. Il MoU rappresenta un'importante pietra miliare per Eni e Saipem, a conferma dell'impegno reciproco nella diversificazione delle fonti energetiche e nella riduzione dell'impronta carbonica nelle operazioni offshore. Eni produce biocarburanti sin dal 2014, grazie alla riconversione delle raffinerie di Venezia e Gela in bioraffinerie, che dalla fine del 2022 sono olio di palme free. Tramite la tecnologia proprietaria Ecofining™ vengono trattate materie prime vegetali o di scarti animali e prodotti biocarburanti HVO (Hydrotreated Vegetable Oil, olio vegetale idrogenato). I biocarburanti sono uno dei pilastri del piano strategico Eni per il raggiungimento della carbon neutrality al 2050, attraverso un percorso di decarbonizzazione che punta all’abbattimento delle emissioni di processi industriali e prodotti. Tale accordo, in particolare, si inscrive nell’ambito della realizzazione della strategia di Saipem per la riduzione delle emissioni GHG ed implementa, insieme alle altre iniziative e agli investimenti previsti dal piano strategico del Gruppo, il percorso per la riduzione delle proprie emissioni di scopo 1 e scopo 2 entro il 2035 e il raggiungimento dell’obiettivo di Net Zero (incluso scopo 3) al 2050. L’accordo farà leva sull'esperienza e sulle competenze di entrambi i partner. Eni Sustainable Mobility, tra i primi produttori di biocarburanti in Europa, mette a disposizione le proprie conoscenze nel fornire soluzioni per la riduzione delle emissioni di carbonio. Saipem, attraverso il suo impegno nella transizione energetica, mira ad aumentare l'uso di carburanti alternativi sui propri mezzi per ridurre le proprie emissioni e quelle dei suoi clienti. Grazie all’utilizzo di combustibili di origine biogenica, Saipem punta a ridurre l’emissione di circa 550.000 Tonnellate di CO2eq per anno, pari a circa il 60% delle sue emissioni di scopo 1 totali annue. Fonte ENI
SCOPRI DI PIU'Considerazioni sulla produzione e l’utilizzo del granulo in PO (PP/PE)di Marco ArezioI prodotti finiti non estetici destinati a un mercato usa e getta venivano prodotti normalmente con compound di PP formato da un mix tra PP e PE (PO), proveniente dalla granulazione si scarti della selezione dei rifiuti urbani. Se prendiamo in considerazione i bancali in plastica o i distanziatori per l’edilizia o le cassette per l’ortofrutta, per fare solo alcuni esempi, il mix tra le due famiglie di polimeri permetteva di produrre dei compounds la cui % di PP all’interno della miscela variava dal 30-40% al 60-70% a seconda della ricetta attesa. Il melt index a 230°/ 2,16 kg. variava da 3 a 6 se il prodotto non presentava cariche minerali aggiunte. Le caratteristiche del granulo prodotto, e di conseguenza dell’articolo finale, vedevano una performance buona per quanto riguardava la resistenza a compressione e una meno eccelsa per quanto riguardava la resistenza a flessione. In merito alla facoltà di ricevere i colori nella fase di estrusione del granulo o durante le fasi di stampaggio, posso dire che, per quanto riguarda la scala dei colori scuri, la famiglia di tinte permetteva una discreta scelta e l’aspetto estetico del prodotto finito era accettabile in considerazione del prodotto da cui si partiva. Oggi il cosiddetto PO, che identifica il misto poliolefinico proveniente dalla raccolta differenziata, ha assunto una composizione media diversa rispetto al passato in virtù dell’accresciuta performance degli impianti di selezione dei rifiuti urbani che tendono a massimizzare il prelievo dal mix PP/PE di polipropilene, HD e LD, in quanto l’offerta sul mercato di input separato permette un margine di contribuzione sul rifiuto nettamente superiore rispetto alla vendita del mix originario. Questo, oggi, comporta di dover lavorare un mix PP/PE qualitativamente meno performante rispetto al passato in quanto gli equilibri tra le tre famiglie, PP, HD, e LD che componevano il PO in passato, si sono alterate. Inoltre l’aumento della produzione sia del rifiuto da lavorare che della richiesta di granulo da compound PP/PE ha spinto alcuni impianti di trattamento dei rifiuti plastici a velocizzare la fase di lavaggio per recuperare produttività a decremento della qualità del macinato o densificato necessario a produrre il granulo. Possiamo elencare alcune criticità della produzione di compound PO: • Aumento della % di LD a discapito dell’ HD nel mix poliolefinico • Peggioramento della qualità del lavaggio dell’input a causa dell’aumento dei volumi da trattare e delle diverse % di polimeri nella ricetta • Aumento della presenza di plastiche bio all’interno del frazione selezionata che danno problemi nella qualità del granulo • Aumento dell’utilizzo sul mercato di imballi fatti con plastiche miste che comportano una maggiore % di materiali multistrato, come certe etichette, di difficile coabitazione con il PO tradizionale. In merito a questi cambiamenti nella composizione base del PO e della sua lavorazione, avremo dei risvolti da gestire in fase di produzione del granulo e in fase di stampaggio, al fine di minimizzare gli impatti negativi della qualità di cui è composto il granulo. Per quanto riguarda la produzione si dovrebbe intervenire: • sui tempi di lavaggio • sulla dimensione delle vasche • sulla gestione dell’acqua • sulla ricetta del compound PO per la granulazione • sulla filtrazione Per quanto riguarda la fase di stampaggio si dovrebbe intervenire: • sulle temperature macchina • sulla fase di essiccazione del granulo • sulla verifica dei raffreddamenti degli stampi L’intervento tecnico su queste criticità porta ad avere i seguenti miglioramenti: • Maggiore resistenza alla flessione del prodotto finale • miglioramento delle superfici estetiche con riduzione o scomparsa di sfiammature sul prodotto finito • Miglioramento della omogeneità dei colori • riduzione del cattivo odore del granulo e del manufatto finito • aumento della durata delle viti e cilindri in fase di granulazione e degli stampi in fase di iniezione • luoghi di lavoro più salutari durante le fasi di fusione della plastica.Categoria: notizie - tecnica - plastica - riciclo - stampaggio ad iniezioneVedi maggiori informazioni sullo stampaggio delle materie plastiche
SCOPRI DI PIU'Cosa hanno fatto i colombiani per introdurre la circolarità dei rifiutidi Marco ArezioL’economia circolare è entrata a far parte della vita dei cittadini Colombiani con lo scopo di tutelare l’ambiente, la popolazione e il proprio territorio. A un anno dalla partenza del progetto vediamo il lavoro fatto nell’arco di un anno. La Colombia è il sesto paese dell’America Latina come estensione territoriale e il quarto come popolazione, contando circa 42 milioni di abitanti e ha deciso di intraprendere un percorso virtuoso verso un’economia circolare nazionale, coinvolgendo nel progetto i sindaci, le aziende, i riciclatori, le università e tutte quelle forze sociali sul territorio che possano aderire a questa causa. Lo scopo di questo progetto era quello di spingere ad una trasformazione, in un’ottica di economia circolare, i sistemi produttivi nazionali, agricoli e iniziare un percorso di sostenibilità delle città in termini economici, sociali e di innovazione tecnologica. Questa strategia prevedeva sei linee giuda: Flusso dei materiali di consumo civile e industriale Flusso dei materiali di imballaggio Flusso e utilizzo delle biomasse Fonti e uso di energia Flusso dell’acqua Flusso dei materiali da costruzione Questo grande progetto non è stato fatto calare dall’alto ed imposto alla popolazione e agli industriali, ma è partito con il coinvolgimento e la collaborazione di tutte le forze in campo. Per questo motivo si sono incontrate le regioni, con le quali si sono fatti accordi specifici. Parallelamente è poi stato fatto un lavoro di carattere sociale, in quanto si sono organizzate riunioni locali nelle quali si portava a conoscenza dei cittadini quali cambiamenti sarebbero avvenuti nel loro rapporto con i rifiuti domestici e industriali e quali stili di vita sarebbero stati modificati per andare verso un modello internazionale di economia circolare. Nello specifico, durante il primo anno di attività si sono raggiunti i seguenti risultati: Firma del patto Nazionale sull’economia circolare sottoscritto da 50 operatori tra pubblici e privati. 19 seminari regionali sull’economia circolare in cui sono stati presentati 80 progetti di successo nel paese. 16 patti regionali firmati con oltre 230 tra sindacati, ONG, istituzioni accademiche, sindaci, organizzazioni civili e riciclatori. 11.000 persone formate 15 seminari settoriali per coordinare i progetti con diversi gruppi di interesse. Creazione di un nuovo sistema informativo nazionale sull’economia circolare. Primo corso di formazione rivolto ai funzionari pubblici del governo centrale e regionale. Firma di un accordo con Ecopetrol sulla gestione dei rifiuti pericolosi quali miscele ed emulsioni di olii, idrocarburi misti con altre sostanze.Categoria: notizie - plastica - economia circolare - rifiuti - colombiaVedi maggiori informazioni sul riciclo
SCOPRI DI PIU'Preparativi, Speranze, Sfide e Tragedie al Cospetto del Nanga Parbat. Capitolo 1: Il Richiamo della Montagnadi Marco ArezioL'alpinismo, nella sua essenza più pura, è sempre stato più di una semplice conquista fisica. Per molti, rappresenta un profondo viaggio interiore, un dialogo tra l'uomo e la natura che trascende i confini della mera avventura fisica. Nessuna storia incarna meglio questa verità di quella della prima salita del Nanga Parbat nel 1970 attraverso la sua imponente parete nord del Rupal da parte dei fratelli Reinhold e Günther Messner. Questa epica ascesa non solo segnò un capitolo cruciale nella storia dell'alpinismo ma anche nel cuore e nell'anima di chi osò affrontarla.Cosa è la Parete Nord del Ruplal sul Nanga Parbat La Parete Nord del Rupal sul Nanga Parbat, spesso descritta come la "parete più alta della Terra", rappresenta una delle sfide più formidabili e impressionanti nell'ambito dell'alpinismo. Con un'altezza verticale di circa 4.600 metri dalla sua base fino alla cima, questa parete è situata sul lato sud della montagna e fa parte del massiccio del Nanga Parbat, che è il nono più alto del mondo, elevandosi a 8.126 metri sul livello del mare.Negli anni '60, la parete nord del Rupal era considerata da molti alpinisti un "ultimo problema dell'Himalaya", un obiettivo estremamente ambito ma altrettanto temuto per le sue difficoltà tecniche, i rischi oggettivi e le sfide logistiche. La parete presentava (e presenta ancora) una combinazione formidabile di ostacoli, tra cui pendii ghiacciati estremamente ripidi, pareti rocciose quasi verticali, e il pericolo costante di valanghe e cadute di sassi. La sua immensità e il suo isolamento aggiungevano ulteriori livelli di difficoltà, rendendo ogni tentativo di scalata un'impresa seria e rischiosa.La percezione degli alpinisti negli anni '60 era fortemente influenzata dalle storie di precedenti spedizioni che avevano tentato di conquistare il Nanga Parbat, alcune delle quali avevano avuto esiti tragici. Tuttavia, questa reputazione contribuiva anche ad alimentare il fascino e l'attrazione verso il Nanga Parbat, poiché alpinisti di tutto il mondo vedevano nella sua conquista non solo una sfida sportiva estrema, ma anche un'opportunità per testare i limiti dell'endurance umana e della capacità tecnica. Profilo dei Principali Alpinisti Reinhold Messner: Considerato uno dei più grandi alpinisti di tutti i tempi, Reinhold era noto per la sua straordinaria forza fisica, la sua volontà di ferro e la sua filosofia di vita avventurosa. Pioniere dello stile alpino nelle grandi montagne, la sua visione dell'alpinismo enfatizzava la purezza dell'esperienza e il rispetto profondo per la natura. Oltre alla sua carriera in montagna, è un difensore appassionato della conservazione ambientale e un autore prolifico, con numerosi libri che esplorano la filosofia dell'avventura e dell'esplorazione. Günther Messner: Fratello minore di Reinhold, Günther condivideva la passione per l'alpinismo e l'avventura. Sebbene meno conosciuto del fratello, la sua competenza tecnica e la sua resistenza erano fondamentali per il successo delle loro imprese congiunte. La loro stretta relazione fraterna e la fiducia reciproca erano evidenti in tutte le loro scalate, con Günther che svolgeva un ruolo cruciale nel supportare le ambizioni alpinistiche di Reinhold.La squadra era composta anche da altri alpinisti di talento, ognuno dei quali portava competenze e esperienze vitali alla spedizione. Tuttavia, il focus emotivo e narrativo rimane sui fratelli Messner, il cui legame profondo e la visione condivisa erano al cuore dell'impresa. Il Nanga Parbat, noto anche come la "Montagna Assassina", si erge maestoso tra le vette dell'Himalaya, sfidando gli alpinisti con le sue pendici inospitali e le sue condizioni estreme. Eppure, fu proprio questa montagna a richiamare i fratelli Messner, attirandoli con la promessa di un'avventura che avrebbe messo alla prova, non solo il loro coraggio e la loro resistenza, ma anche la loro volontà e il loro spirito. La decisione di affrontare la parete nord del Rupal, la più alta parete rocciosa del mondo, era emblematica del loro desiderio di esplorare i limiti dell'essere umano, di sfidare se stessi contro le forze della natura in una delle sue forme più incontaminate e temibili. L'attrazione di Reinhold e Günther Messner verso il Nanga Parbat non era motivata semplicemente dal desiderio di successo o dalla fame di riconoscimenti, piuttosto, rifletteva una connessione spirituale con la montagna, una comprensione che la scalata era tanto un viaggio verso l'interno quanto un'ascesa fisica. Vedevano la montagna come un luogo di prova e rivelazione del sé, un'arena dove potevano confrontarsi con i loro limiti più profondi, superare le loro paure e scoprire la propria essenza più autentica. Questa visione dell'alpinismo, radicata in una cultura che valorizza l'autenticità dell'esperienza e il rispetto profondo per la natura, li distingueva in un'epoca in cui l'esplorazione delle grandi vette era spesso dominata dalla conquista piuttosto che dalla comprensione. Il loro approccio era antitetico alla nozione di dominio sull'ambiente; piuttosto, cercavano un dialogo, una sorta di comunione con la montagna, che li vedeva come ospiti piuttosto che come conquistatori.La scelta di scalare la Parete del Rupal del Nanga Parbat era dunque un'affermazione di principi e valori. Non si trattava solo di affrontare una sfida fisica estrema, ma di intraprendere un percorso di ricerca interiore che li avrebbe trasformati. La montagna, con le sue impervie pareti e il suo ambiente inospitale, era il medium attraverso il quale i Messner cercavano risposte a questioni esistenziali, un luogo dove la lotta per la sopravvivenza esterna si specchiava in una battaglia interna per la comprensione di sé. In questa luce, il Nanga Parbat non era semplicemente una montagna da scalare, ma un passaggio verso una più profonda consapevolezza di sé. La loro ascesa si proponeva di esplorare non solo i confini geografici dell'Himalaya, ma anche i confini interiori dell'anima umana. La Parete del Rupal diventava così un simbolo potente della ricerca umana di significato, un luogo dove la fisicità della scalata si intrecciava indissolubilmente con lo spirito di chi osava affrontarla. Le Motivazioni alla Base della Spedizione Al centro dell'organizzazione della spedizione c'erano diverse motivazioni. Primo, vi era il desiderio di superare una delle sfide alpinistiche più ardue e pericolose dell'epoca. La Parete del Rupal del Nanga Parbat era considerata la "parete assassina", un muro di 4500 metri che rappresentava uno degli ultimi problemi irrisolti dell'alpinismo himalayano. La sua conquista prometteva non solo un posto nella storia dell'alpinismo ma anche un'opportunità per i fratelli Messner di testare i loro limiti fisici e psicologici. Secondo, c'era una spinta verso l'innovazione tecnica e tattica nell'alpinismo. I fratelli Messner erano pionieri dello stile alpino nell'Himalaya, un approccio che privilegiava la leggerezza, la velocità e l'autosufficienza rispetto alle spedizioni pesanti e assai supportate che erano la norma. Questo stile rifletteva un rispetto più profondo per la montagna e una ricerca di un'esperienza più pura e diretta. Terzo, la spedizione rappresentava un viaggio interiore, una ricerca di significato oltre i confini del mondo conosciuto. Per i Messner, come per molti alpinisti, la montagna era un luogo di riflessione spirituale, un ambiente dove confrontarsi con le proprie paure, dubbi e aspirazioni più profonde. La decisione di intraprendere la scalata della Parete del Rupal era quindi il risultato di una complessa interazione di motivazioni personali, professionali e filosofiche. Per i fratelli Messner e per i loro compagni di squadra, la spedizione rappresentava l'apice di una vita dedicata alla ricerca dei limiti dell'umano possibile, sia fisicamente che spiritualmente. La montagna chiamava, e loro rispondevano non solo con i loro corpi e le loro menti, ma con tutto il loro essere. In questo primo capitolo della loro straordinaria avventura, il richiamo della montagna emerge non solo come una sfida fisica ma come una chiamata alla scoperta di sé, un invito a entrare in un dialogo con l'infinito.Alla vigilia della partenza, mentre i fratelli Messner ultimavano i preparativi, si trovavano di fronte a una confluenza di emozioni. L'entusiasmo per l'imminente avventura si mescolava a un senso di riverenza e umiltà davanti alla maestosità del Nanga Parbat. Era chiaro che ciò che stavano per affrontare non era un semplice traguardo fisico; era una peregrinazione verso gli abissi più profondi della loro esistenza. La montagna, con la sua imponenza e la sua ineludibile presenza, li chiamava a una sfida che era tanto contro se stessi quanto contro gli elementi naturali. La notte prima della partenza, sotto un cielo stellato che sembrava quasi un presagio del percorso insidioso che li attendeva, Reinhold e Günther condivisero un momento di quiete riflessione. Consapevoli del fatto che il viaggio che stavano per intraprendere avrebbe potuto cambiarli in modi che allora potevano solo immaginare, si promisero l'un l'altro di affrontare ogni difficoltà con coraggio e determinazione, mantenendo sempre un profondo rispetto per la montagna che si apprestavano a scalare. Questa connessione quasi mistica con il Nanga Parbat non era solo una testimonianza del loro amore per l'alpinismo, ma rifletteva anche una comprensione più ampia del loro posto nel mondo. Vedevano la montagna non solo come un avversario da conquistare, ma come un maestro severo e imparziale, capace di impartire lezioni di vita profonde e durature.Avvicinamento al Campo BaseLa spedizione sarebbe iniziata con l'arrivo dei fratelli Messner e del resto del team all'aeroporto di Rawalpindi, vicino a Islamabad, che all'epoca era il principale aeroporto internazionale che serviva la capitale del Pakistan.Dopo l'arrivo, la squadra avrebbe organizzato il trasferimento verso il nord del Pakistan, direzione Gilgit o Chilas. Data l'epoca, è probabile che abbiano viaggiato per strada, affrontando un lungo e arduo viaggio attraverso la Karakoram Highway (KKH), che era in fase di costruzione in quegli anni e non completamente operativa come oggi. Questo viaggio avrebbe offerto loro la prima vera visione della maestosità e della sfida rappresentata dalle montagne dell'Himalaya e del Karakorum.Da Gilgit o Chilas, il team avrebbe proseguito verso il villaggio di Tarashing, situato alla base del versante. Questa parte del viaggio avrebbe potuto essere compiuta utilizzando mezzi di trasporto locali disponibili come camion o jeep adattati per gestire le strade di montagna.L'ultima parte del viaggio verso il campo base del Nanga Parbat avrebbe comportato un trekking di più giorni attraverso paesaggi montani imponenti. Questo percorso avrebbe messo alla prova la loro resistenza e avrebbe segnato l'inizio del loro adattamento all'altitudine. I fratelli Messner e il loro team avrebbero portato con sé attrezzature, cibo e altri materiali necessari, affidandosi anche all'aiuto di portatori locali per trasportare i pesi più ingenti.Il capitolo si conclude con i fratelli Messner che si avviano verso la base della Parete del Rupal, le loro figure piccole ma risolute contro l'immenso sfondo della montagna. In questo momento di partenza, erano pienamente consapevoli della grandezza della sfida che avevano scelto di affrontare, ma erano guidati da un irriducibile spirito di avventura e da una sete insaziabile di conoscenza.Il loro passo era fermo, il cuore pieno di speranza e la mente aperta alle infinite possibilità che il Nanga Parbat aveva da offrire. Era l'inizio di una leggendaria impresa alpinistica, ma anche di una profonda odissea personale che avrebbe lasciato un'impronta indelebile sulla loro vita e sull'intero mondo dell'alpinismo.
SCOPRI DI PIU'Non ci sono solo nuove metodologie per migliorare l’economia circolaredi Marco ArezioA volte le soluzioni per risolvere i grandi problemi che ci assillano, come quello dei rifiuti di plastica, sono nel passato. Coca Cola, negli anni ’20 del secolo scorso, introdusse il concetto del vuoto a rendere sulle bottiglie in vetro riuscendo a recuperare dal mercato il 98% di quanto venduto. Spesso sul portale rMIX si trovano articoli inerenti alle molte ricerche e sperimentazioni su nuove forme di riciclo dei packaging di plastica e non, che mirano a risolvere il grande problema dei rifiuti che ci assilla. Il packaging alimentare, soprattutto le bottiglie di plastica, utilizzano un elemento durevole per contenere i liquidi destinati alla nostra tavola, quindi diventa in pochissimo tempo un rifiuto. In realtà fino al 2011 il mercato era governato, da parte dei consumatori, da tre esigenze: affidabilità, convenienza e prestazione. La bottiglia in plastica riassumeva le tre caratteristiche richieste dai consumatori e quindi, i produttori, non si ponevano il problema di cosa succedesse, dopo qualche giorno dall’acquisto, alle bottiglie. Nonostante fosse già da tempo iniziato il riciclo dei contenitori di plastica attraverso il sistema meccanico di gestione dei rifiuti, i grandi produttori non sentivano il problema dell’ambiente e quindi continuavano ad assecondare il mercato, nonostante sapessero che la quota di bottiglie plastiche prodotte rispetto a quanto fosse riciclato non presentava nessun tipo di equilibrio. Nel 2012 si iniziò, a livello mondiale, a parlare dell’inquinamento degli oceani da parte dei rifiuti di plastica, in cui le bottiglie erano le degne rappresentanti di questo fenomeno. Ma fu solo a partire dal 2015 che i consumatori iniziarono a prendere coscienza del problema, moltiplicando le campagne a difesa dell’ambiente. La gente iniziò a capire che dei 9,2 miliardi di tonnellate di plastica prodotta nel mondo, circa 6,2 sono diventati rifiuti e di questa quantità il 91% circa non è stato riciclato. Nonostante queste evidenze, le grandi aziende delle bibite, dei detersivi, dei liquidi industriali tentennavano, non volevano prendere posizione perché avevano paura di portare squilibri nelle proprie vendite. Poi, quasi improvvisamente, aziende come Coca Cola o Unilever, Nestlè, Proctor & Gamble, Pespi e altri, hanno rotto il ghiaccio e hanno acquisito nel proprio DNA di marketing un nuovo concetto: sostenibilità ambientale. La parola riciclo entrò prepotentemente nelle campagne pubblicitarie per assecondare le richieste dei consumatori che richiedevano una nuova sostenibilità industriale e si resero conto che la leva “verde” poteva avere anche una nuova valenza commerciale. Il mercato del riciclo in questi anni ha subito enormi cambiamenti ed enormi scossoni, tra chi spingeva per migliorare e incrementare la sua potenzialità ed efficacia a chi subdolamente gli faceva la guerra, abbassando i prezzi delle materie prime vergini, secondo le più classiche regole di mercato tra domanda e offerta. Ma indietro comunque non si può più tornare e questo è stato recepito anche dai produttori di materie prime vergini che si stanno contendendo, con le grandi aziende del beverage e dell’home care, il mercato del riciclo, tramiti accordi blindati e acquisizioni dirette. Il costo del riciclo è comunque un onere non indifferente e, oggi, contrariamente a quello che succedeva nel passato, il materiale riciclato non ha più un vantaggio economico rispetto a quello vergine. Così si devono trovare altri canali di riciclo che rendano sostenibile la filiera. Come negli anni ’20, si sta sperimentando nel mondo forme di distribuzione del prodotto come il vuoto a rendere o il riempimento delle bottiglie riutilizzabili presso distributori autorizzati, dalla birra ai detersivi alle bibite, alle tazze del caffè come fanno Starbucks e McDonalds. Dopo aver capito che bisogna riciclare stiamo piano piano capendo che bisogna riutilizzare gli imballi che compriamo e forse capiremo anche, spero presto, che dobbiamo imparare a consumare meno.Categoria: notizie - plastica - economia circolare - rifiuti - vuoto a rendereVedi maggiori informazioni sul riciclo
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