Melinda e Novamont Alleate per il Packaging SostenibileL'accordo tra Melinda, azienda produttrice di mele e Novamont, produttore di materie plastiche da fonti rinnovabili, non è solo interessante in quanto accordo tra produttore di frutta e leader delle materie prime per un packaging sempre più sostenibile, ma è anche importante, come si legge nell'articolo di Adnkronos, in quanto le due società stanno studiando di riutilizzare gli scarti delle mele come fonte di estrazione dello zucchero per i processi produttivi della bioplastica.Ridurre il più possibile l’impatto degli imballaggi sull’ambiente. E' questo l'obiettivo della partnership siglata da Melinda con Novamont – azienda italiana nella produzione di bioplastiche da fonti rinnovabili, biodegradabili e compostabili secondo lo standard Uni En 13432, che ha consentito la messa a punto di un film in bioplastica che insieme a vassoio, bollini ed etichette rende totalmente compostabile il packaging per tutta la linea Melinda Bio. Tutto l’imballo, realizzato con una grafica consumer friendly, potrà essere riciclato con la raccolta della frazione organica dei rifiuti per essere trasformato in compost, ossia concime per il terreno, dopo il trattamento in appositi impianti industriali. A garanzia della certificata biodegradabilità e compostabilità, ogni confezione della linea Melinda Bio riporterà il marchio 'Ok compost Industrial' valido per ogni singolo componente del pack. L’intero processo non solo permetterà una migliore gestione dei flussi dei rifiuti, riducendo la loro contaminazione, ma anche di riportare materia organica pulita in suolo, contribuendo al ripristino della sua fertilità e alla riduzione delle emissioni di Co2. Grazie a questa partnership inoltre su ogni confezione di Melinda Bio sarà riportato il marchio MaterBi, di proprietà di Novamont, che identifica la materia prima bioplastica di alta qualità della quale è composto il film, un’ulteriore garanzia per il consumatore. Secondo una logica di learning by doing, la partnership tra Melinda e Novamont ha dato vita anche ad un progetto di ricerca sull’utilizzo degli scarti della lavorazione della mela della filiera Melinda per l’estrazione di zuccheri di seconda generazione che saranno utilizzati per il processo produttivo della bioplastica stessa: un perfetto esempio di bioeconomia circolare che vede due realtà appartenenti a settori estremamente diversi collaborare ad un progetto di territorio. “L’obiettivo è quello di sviluppare processi sempre più sostenibili in una valle che ha i requisiti per essere un modello di sostenibilità nel panorama nazionale e internazionale, continuando a trovare soluzioni innovative per condurre una frutticoltura moderna e sempre più rispettosa dell’ambiente" dichiara Paolo Gerevini, Direttore Generale Consorzio Melinda. "Abbiamo trovato in Novamont il partner ideale con il quale sviluppare progetti che ci permettano di essere sempre più rispettosi dell’ambiente anche nella realizzazione delle confezioni per la nostra frutta e guardiamo al futuro collaborando con loro in un’ottica di economia circolare. Un progetto di certo ambizioso ma in linea con le capacità e la voglia di sviluppo delle nostre aziende, entrambe leader nel proprio settore". “Voglio ringraziare Melinda per avere scelto di sperimentare con noi soluzioni nuove con spirito pionieristico e costruttivo – dice Catia Bastioli, amministratore delegato di Novamont, - nella consapevolezza delle interconnessioni tra cambiamento climatico, degradazione degli ecosistemi, perdita di biodiversità, cibo, inquinamento, coesione sociale e territori. Avere al nostro fianco un partner come Melinda nel nostro percorso di ricerca è per noi è un risultato straordinario". "Come Novamont, applicando il modello della bioeconomia circolare, abbiamo contribuito alla creazione della prima filiera italiana integrata per le bioplastiche e i biochemical, con la salute del suolo come punto di partenza e di arrivo, riattivando 5 siti deindustrializzati e creando accordi di filiera con il mondo dell’agricoltura, collaborando con gli impianti di compostaggio, nonché con una rete di trasformatori innovativi, con la Gdo, con i brand owner, con le università e i centri di ricerca. Oggi questo modello è cresciuto ed è diventato un progetto demo a livello italiano e lo sviluppo di bioprodotti innovativi come soluzioni sistemiche ha dimostrato di poter alimentare le tante e diversificate filiere di grande valore presenti nel Paese” conclude Bastioli.Categoria: notizie - plastica - economia circolare - packaging
SCOPRI DI PIU'I polimeri sembrano materiali recenti ma la loro origine è più lontana di quanto non sembridi Marco ArezioLa storia della nascita dei polimeri è molto meno lineare di quanto si possa pensare, con le intuizioni di alcuni precursori che, a volte, rimanevano ferme in laboratorio per decenni, in quanto la conoscenza delle reazioni chimiche o il limitato progresso tecnologico impiantistico ne inficiavano lo sviluppo. E’ interessante notare che, per alcune combinazioni chimiche che hanno poi portato alla nascita di una determinata famiglia di polimeri, la casualità poteva aver giocato anche un ruolo primario, creando situazioni inaspettate, frutto di reazioni chimiche non cercate ma subito capite e sfruttate. Sicuramente il secolo scorso è stato fondamentale per lo sviluppo dei polimeri di base, in quanto si sono verificate due situazioni formidabili: - la prima era la progressione continua della conoscenza della chimica industriale, i cui albori si possono indentificare nel XIX° secolo, - la seconda è il grande progresso industriale che ha potuto mettere a disposizione dei chimici, sia in laboratorio che nelle sedi industriali, efficienti ed innovative macchine che assecondassero le idee degli scienziati. Come ci racconta, Michele Seppe, già negli anni 30 del secolo scorso, la moderna industria della gomma aveva già quasi cento anni, la celluloide era disponibile in commercio da oltre mezzo secolo e i fenoli erano una forza dominante in un'ampia varietà di industrie. Con poche eccezioni, tutti gli sviluppi significativi nella tecnologia dei polimeri fino a quel momento sono stati i sistemi dei reticolati, noti anche come materiali termoindurenti. Oggi l'industria ha un aspetto molto diverso, i termoplastici sono i materiali dominanti e, all'interno di questo gruppo, il polipropilene, il polietilene, il polistirene e il PVC sono le quattro materie prime che rappresentano la maggior parte del volume consumato a livello mondiale. Ma i materiali termoplastici che possono davvero competere con le prestazioni, alle temperature elevate dei metalli e dei polimeri reticolati, sono materiali come le poliammidi (nylon), i policarbonati e il PEEK. Tracciare lo sviluppo storico dei termoplastici può essere impegnativo, perché molte volte la scoperta di un materiale in laboratorio non ha avuto un percorso rapido verso la sua commercializzazione. Il polistirene fu scoperto per la prima volta nel 1839, ma fu prodotto commercialmente solo nel 1931, a causa di problemi con il controllo della reazione esotermica di polimerizzazione. Il PVC è stato scoperto nel 1872, ma i tentativi di utilizzarlo commercialmente all'inizio del XX° secolo sono stati ostacolati dalla limitata stabilità termica del materiale. Infatti, la temperatura richiesta per convertire il materiale in una massa fusa, era superiore alla temperatura alla quale il polimero iniziava a decomporsi termicamente. Questo fu risolto nel 1926 da Waldo Semon, presso BF Goodrich, infatti, mentre cercava di deidroalogenare il PVC in un solvente per creare una sostanza che legasse la gomma al metallo, scoprì che il solvente aveva plastificato il PVC. Ciò abbassò la sua temperatura di rammollimento e aprì una finestra per la lavorazione alla fusione. Il polietilene fu creato per la prima volta in laboratorio nel 1898 dal chimico tedesco Hans von Pechmann scomponendo il diazometano, una sostanza che aveva scoperto quattro anni prima. Ma il diazometano è un gas tossico con proprietà esplosive, quindi, non sarebbe mai stata un'opzione commerciale praticabile per la produzione su larga scala di un polimero, che ora è utilizzato in volumi annuali incredibilmente alti. Il materiale fu riscoperto nel 1933 da Eric Fawcett e Reginald Gibson mentre lavoravano all'ICI in Inghilterra. Sperimentarono il posizionamento di vari gas ad alta pressione, e quando misero una miscela di gas etilene e benzaldeide sotto un'enorme pressione, produssero una sostanza bianca e cerosa che oggi conosciamo come polietilene a bassa densità. La reazione fu inizialmente difficile da riprodurre, solo due anni dopo un altro chimico dell'ICI, Michael Perrin, sviluppò controlli che resero la reazione abbastanza affidabile da portare alla commercializzazione nel 1939, più di quarant'anni dopo che il polimero fu prodotto per la prima volta. Il polietilene ad alta densità è stato sintetizzato con l'introduzione di nuovi catalizzatori nei primi anni 1950. Nel 1951, mentre J. Paul Hogan e Robert Banks lavoravano alla Phillips Petroleum, svilupparono un sistema basato sull'ossido di cromo. I brevetti furono depositati nel 1953 e il processo fu commercializzato nel 1957, ed ancora oggi il sistema è noto come catalizzatore Phillips. Nel 1953, Karl Ziegler introdusse un sistema che utilizzava alogenuri di titanio combinati con composti di organoalluminio e, più o meno nello stesso periodo, un chimico italiano, Giulio Natta, apportò modifiche alla chimica di Ziegler. Entrambi i sistemi hanno consentito una riduzione sia della temperatura che della pressione necessarie per produrre l'LDPE altamente ramificato e hanno prodotto un polimero lineare molto più forte, più rigido e più resistente al calore rispetto all'LDPE. Questi sviluppi illustrano come di diversi gruppi di chimici, che lavorarono in modo indipendente sugli stessi problemi, arrivarono a sviluppare soluzioni quasi contemporaneamente. I nuovi catalizzatori hanno anche permesso di produrre versioni commercialmente utili del quarto membro della famiglia dei polimeri di base, il polipropilene. Questo era stato prodotto da Fawcett e Gibson a metà degli anni 1930. Dopo i loro esperimenti di successo con il polietilene, hanno naturalmente ampliato il loro lavoro per includere altri gas, ma i loro risultati con il polipropilene furono deludenti. Invece di produrre un materiale che fosse solido a temperatura ambiente e mostrasse utili proprietà meccaniche, la reazione produsse una massa appiccicosa interessante solo come adesivo. Fawcett e Gibson avevano prodotto quello che in seguito sarebbe stato conosciuto come polipropilene atattico. A differenza del polietilene, in cui tutti i gruppi attaccati allo scheletro di carbonio sono atomi di idrogeno, ciascuna unità di propilene nello scheletro di polipropilene contiene tre atomi di idrogeno e un gruppo metilico molto più grande. Nel polipropilene atattico, il gruppo metilico può apparire in una qualsiasi delle quattro possibili posizioni all'interno dell'unità di ripetizione, impedendo la cristallizzazione del materiale. I nuovi catalizzatori crearono una struttura in cui il gruppo metilico si trovava nella stessa posizione in ogni unità ripetuta. La regolarità strutturale ha portato a un materiale in grado di cristallizzare, infatti questa forma cristallina di polipropilene aveva forza, rigidità e un punto di fusione persino superiore all'HDPE. Questo rapido sviluppo ha creato due materiali che rappresentano oggi oltre il 50% della produzione mondiale annuale di polimeri. È interessante notare che la moglie di Giulio Natta, Rosita Beati, che non era un chimico, ha coniato i termini atattico, isotattico e sindiotattico per descrivere le diverse strutture che si potevano creare polimerizzando il polipropilene. Oggi usiamo questi termini per riferirci in generale alle strutture isomeriche che si possono formare quando i polimeri vengono prodotti utilizzando vari tipi di catalizzatori. .
SCOPRI DI PIU'Le bioplastiche compostabili saranno un’alternativa alla plastica tradizionale?di Marco ArezioLe bioplastiche compostabili, di derivazione vegetale, sembravano essere la panacea di tutti i mali attribuiti alla plastica di origine fossile ma, oggi, sono sorti molti dubbi su una loro efficacia e sostenibilità relativi ai modelli di produzione della componente vegetale. C’è una grande confusione sul mercato, causata anche dalle etichette sui prodotti in cui abbondano i suffissi “Bio”,“Biodegradabile”, e “Biocompostabile”, dove il consumatore rimane spiazzato e non sempre ne capisce le differenze. Su questa velata ignoranza si fonda spesso il fenomeno del greewashing che fa sembrare un prodotto eticamente “green” quando a volte non lo è del tutto. I prodotti che troviamo negli scaffali dei negozi con l’etichetta biodegradabile e compostabile sono generalmente prodotti che partono da una materia prima vegetale, come l’amido di mais, il frumento, la barbabietola, la canna da zucchero, la tapioca e le patate. Questi elementi naturali, debitamente processati, possono essere trasformati in polimeri, comparabili per qualità, caratteristiche tecniche e lavorabilità a polimeri di origine fossile che non sono compostabili. In realtà il consumatore deve sapere che la compostabilità, che trova espressa sulle etichette dell’imballo, riguarda principalmente una trasformazione industriale dello stesso e non la possibilità di inserirlo nel composter in giardino. Quella della materia prima che costituisce un imballo biodegradabile e compostabile è effettivamente un’ottima idea, in quanto permetterebbe di recuperare molti imballi che oggi non si riciclano, o si riciclano con uno scarso valore aggiunto proprio per i residui di cibo che rimangono all’interno delle confezioni. Ma dobbiamo fare un passo indietro per vedere la sostenibilità della filiera di queste materie prime compostabili di origine vegetale. I dubbi che sorgono in modo sempre più corposo riguardano la coltivazione dei prodotti vegetali quali canna da zucchero, patate, mais, barbabietole, frumento e molti altri prodotti, che vanno ad incidere negativamente sulla produzione di derrate alimentari, sull’occupazione del suolo coltivabile già messo sotto pressione dalla produzione di cereali per l’industria della carne, dal consumo di acqua, dall’impiego di concimi chimici e pesticidi e dalla deforestazione per creare nuove terre coltivabili. Ne vale la pena? Secondo il rapporto della FAO del Luglio 2019, oltre 2 miliardi di persone, soprattutto nei paesi a basso e medio reddito, non hanno accesso regolare ad alimenti salubri, nutrienti e sufficienti. Ciò richiede una profonda trasformazione dei sistemi alimentari affinché forniscano diete sane e prodotte in modo sostenibile alla popolazione mondiale in aumento. Numero di persone affamate nel mondo nel 2018 sono circa 821,6 milioni così divise: in Asia: 513,9 milioniin Africa: 256,1 milioniin America Latina e nei Caraibi: 42,5 milioniNumero di persone in stato di insicurezza alimentare moderata o grave: 2 miliardi (26,4%)Bambini con basso peso alla nascita: 20,5 milioni (1 su 7)Bambini al di sotto dei 5 anni affetti da rachitismo (bassa statura rispetto all’età): 148,9 milioni (21,9%)Bambini al di sotto dei 5 anni che soffrono di deperimento (scarso peso rispetto all’altezza): 49,5 milioni (7,3%) Un rapporto dell’UNICEF evidenzia gli scarsi progressi compiuti nella lotta agli effetti della malnutrizione infantile sullo sviluppo dell’infanzia. Nel 2017 sono stati 151 milioni i bambini sotto i cinque anni affetti da ritardo nell’altezza dovuto alla malnutrizione (stunting), rispetto ai 165 milioni del 2012. In Africa e Asia vivono rispettivamente il 39% e il 55% di tutti i bambini affetti da questa forma di ritardo. L’incidenza del deperimento infantile (wasting) rimane estremamente elevata in Asia, dove quasi un bambino su dieci sotto i cinque anni ha un peso più basso del dovuto rispetto all’altezza: dieci volte più di quanto avvenga in America Latina e nei Caraibi, dove questa forma di malnutrizione colpisce solo 1 bambino su 100. Il rapporto bolla come “vergognoso” il fatto che una donna su tre in età fertile, nel mondo, sia affetta da anemia, circostanza che ha conseguenze pesanti sulla salute e sullo sviluppo sia per le donne stesse che per i loro bambini. Nessuna regione del pianeta ha mostrato negli ultimi anni un calo nella diffusione dell’anemia femminile, e l’incidenza del fenomeno fra le donne africane e asiatiche è quasi tripla rispetto alle donne nord-americane. Ma se l’aumento della richiesta di biopolimeri, di biocarburanti e di foraggio per l’industria della carne deve soddisfare l’aumento di una popolazione crescente, anno dopo anno, l’agricoltura non sarà in grado di produrre quanto richiesto dal mercato per soddisfare le esigenze alimentari umane. Si aggiunga inoltre che l’agricoltura, per via del cambiamento climatico, è strettamente dipendente dalle condizioni metereologiche che stanno diventando sempre più sfavorevoli con un aumento della desertificazione e della resistenza delle piante. In questo quadro, le scoperte dei biopolimeri sono sicuramente un passo avanti nella ricerca, ma se dovessimo pensare di sostituire, anche parzialmente la produzione di plastica con una bioplastica, le cui materie prime derivino da una coltivazione agricola, non credo che sia un processo in equilibrio con le esigenze globali.Categoria: notizie - plastica - economia circolare - bio plasticaVedi maggiori informazioni sulla bioplastica
SCOPRI DI PIU'Trattative in corso per il controllo della società Novamont attiva nella produzione di bioplasticheIl nome di Novamont e del suo polimero di punta il Mater-Bi, sono conosciuti da tutti gli attori del settore delle plastiche vergini, riciclate e delle bioplastiche, come l’azienda di punta della filiera, in continua evoluzione, nella produzione delle bioplastiche, biodegradabili e compostabili. Il polimero di Novamont è appunto il Mater-Bi, una plastica completamente biodegradabile e compostabile, che permette il suo recupero, a fine vita, attraverso la raccolta e il riciclo dei rifiuti organici urbani, utilizzando i processi di compostaggio e digestione anaerobica. Ma quale è la differenza tra biodegradabilità e compostabilità? Il processo di biodegradazione è la capacità delle sostanze e dei materiali organici di essere degradati in sostanze più semplici, mediante l’attività (enzimatica) di microorganismi. Quando il processo biologico è completo, si ha una totale trasformazione delle sostanze organiche di partenza in molecole inorganiche semplici: acqua, anidride carbonica e metano. Ma la biodegradazione è influenzata da molti fattori, come le temperature, il tasso di umidità, la natura chimica dei materiali da lavorare. Per questo motivo gli ambienti industriali del compostaggio e della digestione anaerobica favoriscono ed accelerano questi processi. Per quanto riguarda la compostabilità di un materiale, si può dire che è la capacità di un elemento di trasformarsi in compost (concime) attraverso il processo di compostaggio. Questa attività, in presenza di ossigeno, comporta la realizzazione di una trasformazione biologica e aerobica del materiale fino a trasformalo in compost. Novamont, utilizzando risorse naturali come il mais e gli oli vegetali non modificati geneticamente, ha realizzato una famiglia di polimeri biodegradabili e compostabili che si possono usare per la realizzazione di film per il commercio e l’agricoltura, oggetti di varie tipologie attraverso lo stampaggio per iniezione e molte altre cose. Alla luce di queste conoscenze tecnico-commerciali, si sta concludendo un’operazione di acquisizione della società Novamont da parte di Versalis, che la porterà a detenere l’intero pacchetto azionario di Novamont. A sua volta Versalis è una società del gruppo ENI fortemente impegnata nella chimica verde, anche attraverso la conversione di raffinerie petrolifere in bioraffinerie per la produzione di combustibili sostenibili.Foto: Novamont
SCOPRI DI PIU'Che Qualità di Film è Ottenibile con l'Uso dell' LDPE Riciclato?di Marco ArezioMai come oggi la qualità di un granulo di LDPE riciclato è importante per la produzione di un film, in quanto le aspettative del mercato, che si sta spostando dalle materie prime vergini a quelle riciclate, sono molto alte.Non è sempre facile trasmettere al cliente, che vuole produrre con un LDPE riciclato, la necessità di conoscere la genesi del riciclo per non sbagliare ad acquistare il prodotto basandosi, magari, solo sulla convenienza economica della materia prima riciclata rispetto a quella vergine che gli viene offerta. Diciamo, in linea di principio, che anche nel campo dell’LDPE riciclato ci sono famiglie di prodotto attraverso le quali si possono produrre alcuni articoli e, di conseguenza, non se ne possono produrre altre se si vuole ottenere sempre un buon risultato tecnico ed estetico sull’articolo finito da immettere sul mercato. Le macro famiglie si possono distinguere in tre aree: • LDPE riciclato da post consumo • LDPE riciclato post consumo industriale • LDPE riciclato post industriale Il granulo in LDPE da post consumo viene prodotto attraverso il processo di riciclo dello scarto della raccolta differenziata, che viene separato, macinato, lavato, densificato ed estruso in granuli. La prima cosa da considerare dei prodotti di questa famiglia è il grado di contaminazione a cui il film lavorato viene sottoposto durante la sua vita, infatti, la raccolta differenziata comporta la mescolazione nei sacchi della raccolta domestica inquinanti, come resti di cibo, oli, grassi, poliaccoppiati di imballi alimentari e molti altri prodotti che, durante le fasi di raccolta, solidarizzano con il film da riciclare creando un problema di qualità a valle del processo. Inoltre, durante la separazione meccanica, può capitare che parti di altre plastiche rimangano all’interno del flusso dell’LDPE da riciclare creando un altro filone di contaminazione nel processo di produzione del granulo. I sistemi di riciclo meccanico contemplano il lavaggio del materiale selezionato ma, spesso, questo non è sufficiente per ridurre la presenza di plastiche diverse dall’LDPE e lo scioglimento e il distaccamento di parti non plastiche presenti sul prodotto da lavare. Queste contaminazioni possono creare diverse problematiche nella produzione del film: • Odori pungenti nel prodotto finito • Fragilità al taglio dovuta alla presenza di polipropilene • Grumi non fusi nella fase di estrusione con la conseguente puntinatura del film • Irregolarità della superficie del film dovuta alla degradazione delle impurità nella fase di estrusione • Inconsistenza del film dovuta all’eccessiva presenza di gas all’interno del granulo causata dalla degradazione del materiale estruso • Difficoltà di creare una bolla regolare a seguito della possibile degradazione del polimero in fase di soffiaggio per la presenza dei problemi sopra elencati. L’uso che normalmente si fa del granulo in LDPE da post consumo da raccolta differenziata è riservato a sacchi per la spazzatura di spessore non inferiore agli 100-120 micron, di colori scuri, in cui il possibile odore, la puntinatura del film e la possibile fragilità al taglio sono dai clienti tollerati a fronte di un prezzo competitivo. Un’altra applicazione sono i teli da copertura provvisoria, normalmente neri, con spessori da 140 a 300 micron in cui le impurità presenti nei granuli si diluiscono negli spessori generosi del film. Il granulo da post consumo industriale è un prodotto molto vicino alla categoria del post industriale che vediamo successivamente, in quanto l’input del materiale non viene dalla raccolta differenziata ma esclusivamente dalla raccolta degli imballi industriali, dei supermercati e del settore del commercio, i cui film da imballo non vengono in alcun modo contaminati da sostanze nocive per il riciclo. Una volta raccolti questi film vengono divisi per colore, macinati lavati, densificati ed estrusi in granuli adatti alla produzione di films.Quali sono i vantaggi di questo flusso:• Materiale non contaminato da rifiuti organici o liquidi industriali • Selezionato per colore • Selezionato per tipologia di plastica • Normalmente soggetto al primo riciclo • Non contiene poliaccoppiati da packaging alimentare La produzione di film con questa tipologia di materiale permette la realizzazione di spessori molto sottili, a partire da 20 micron, utilizzando al 100% il granulo riciclato. Il film rimane elastico, le saldature non si aprono in quanto non si realizza l’influenza negativa della presenza di PP come nel post consumo, non presenta odori sgradevoli, si possono realizzare film trasparenti, anche se si parte da un granulo non trasparente, o film di colorati aggiungendo del master. Esiste anche una versione adatta alla produzione di film nero, dedicato principalmente ai sacchetti per l’immondizia con spessori da 20 a 100 micron o ai teli da copertura per l’edilizia in cui è richiesto un buon grado di resistenza allo strappo. Il granulo post industriale neutro proviene normalmente da scarti di lavorazione di film neutri che vengono raccolti e divisi per colore, macinati e nuovamente estrusi in granuli per la produzione. Un’altra tipologia di LDPE post industriale è caratterizzata dall’utilizzo di scarti delle lavorazioni del polimero delle industrie petrolchimiche, che vengono compattati in blocchi o barre, per poi essere macinati o polverizzati e riutilizzati come materia prima in fase di estrusione dei granuli. Questo tipo di LDPE riciclato è molto simile ad un polimero vergine, sia per caratteristiche meccaniche che di trasparenza nella produzione del film. Non ha odori, non ha alterazioni di colore, si può miscelare con la materia prima vergine, se richiesto e conserva ottime caratteristiche meccaniche e di qualità nella superficie. Articoli correlati:LDPE RICICLATO DA POST CONSUMO: 60 TIPOLOGIE DI ODORI OSTACOLANO LA VENDITALDPE DA POST CONSUMO. COME RIDURRE LE IMPERFEZIONI. EBOOK Categoria: notizie - tecnica - plastica - riciclo - LDPE - film plastici - post consumoVedi maggiori informazioni sul riciclo dell'LDPE
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