Come ottenere una corretta parete interna di un tubo corrugato con un granulo rigenerato in LDPE di Marco ArezioProducendo tubi corrugati in HDPE rigenerato flessibili in rotoli o rigidi di piccolo diametro a doppia parete, la problematica di realizzare lo strato interno di buona qualità ha spinto i produttori ad utilizzare, frequentemente, polimeri vergini a causa della difficoltà di generare una parete corretta e duratura con il materiale rigenerato. In realtà lo strato interno del tubo, per le sue caratteristiche, ha bisogno di un’attenzione particolare a causa dell’esiguo spessore della parete, delle tensioni che si creano in fase di co-estrusione e dei movimenti termici differenti con la parete esterna. La scelta della materia prima normalmente ricade sull’LDPE la cui caratteristica principale richiesta è l’elasticità e la buona adesione allo strato esterno in HDPE. Se si vuole utilizzare un granulo LDPE rigenerato bisogna tenere presente e analizzare alcuni fattori produttivi importanti per poter scegliere un granulo di LDPE di qualità adatta allo scopo. Quando si parla di granulo rigenerato non è sufficiente verificare se il prodotto che ci viene proposto ha un grado “da tubo” come erroneamente a volte viene venduto in quanto la parete interna di un tubo corrugato necessità un granulo dalle caratteristiche ben definite. Come prima cosa dobbiamo accertarci della provenienza dell’input del materiale che costituisce il granulo, iniziando a capire se proviene da una filiera post industriale e dal post consumo. Queste due famiglie, vedremo più avanti, hanno caratteristiche molto diverse tra loro che andranno ad influenzare in modo differente la produzione del tubo. Come seconda cosa dobbiamo verificare da che prodotto è costituito l’input per capire la storia del materiale che viene riciclato e i possibili problemi che ha incontrato nella sua vita di riciclo. Come terza cosa è verificarne i valori tecnici, quindi il melt index, il DSC e la densità del materiale che ci farà capire esattamente come è fatto il granulo che useremo per la parete interna del tubo corrugato. Come quarta cosa è sapere il processo produttivo del granulo proposto in particolare come viene fatta la selezione del rifiuto, il lavaggio e l’estrusione per avere dati in più che ci aiutino a scegliere il prodotto più adatto. L’ultima cosa, molto importante per il granulo che proviene dal post consumo è capire il grado di umidità presente nel prodotto al momento dell’acquisto in quanto un valore alto andrà ad inficiare la qualità della parete se non si prendono opportuni provvedimenti. È ovvio che i punti sopra elencati non siano totalmente esaustivi in fase di analisi tecnica di un granulo, ma posso dire che per l’applicazione di cui parliamo oggi, sono una buona base di partenza considerando che sono dei dati di non difficile reperibilità. Se vogliamo approfondire i punti sopra esposti inizieremo a parlare delle famiglie di input che si possono usare per la produzione della parete interna del tubo corrugato. Abbiamo visto che si può produrre un granulo con materiale proveniente dalla raccolta differenziata o dagli scarti industriali. La filiera del post consumo permette di avere una fonte quantitativa di gran lunga maggiore rispetto a quella proveniente dagli scarti industriali e quindi sembrerebbe la via maestra per soddisfare le esigenze produttive, ma le caratteristiche tecniche che richiede la produzione della parete interna in LDPE di un tubo corrugato mette dei paletti al suo utilizzo. Per sua natura l’LDPE che proviene dalla raccolta differenziata, nonostante una buona selezione e lavaggio, presenta una percentuale di materiali estranei (pvc, poli-accoppiati, pp, ecc..) che hanno comportamenti in contrasto rispetto a quanto ci aspettiamo dal punto di vista qualitativo. Gli scarti che provengono invece dalla produzione di articoli in LDPE sono, normalmente, materiali vergini o Off grade, che per loro natura sono composti da mono-plastiche e quindi non contengono impurità. Di solito non c’è bisogno di lavarli e hanno caratteristiche tecniche ben precise. Esistono in commercio anche Compounds in LDPE realizzati utilizzando porzioni di post consumo e di post industriale, combinando tra loro una selezione di materiali adatti alla produzione della parete interna. Se la verifica della provenienza dell’input post industriale non comporta grande impegno, per le altre due categorie bisogna prestare più attenzione. Per il post consumo si consiglia di privilegiare materiale come il film ma che non sia venuto a contatto con la raccolta differenziata domestica, per esempio i sacchi della pattumiera o gli imballi alimentari, che si portano con se inquinanti difficili da eliminare completamente. Un’altra fonte consigliabile sono i tubi da irrigazione che però hanno bisogno di cicli di lavaggio molto accurati in quanto contengono una frazione di sabbia che ne pregiudica le qualità se non tolta integralmente. Per la realizzazione di compound misti post consumo/post industriali si utilizzano normalmente film provenienti da imballi industriali che hanno una filiera di raccolta separata dai rifiuti domestici, mantenendo caratteristiche qualitative più alte. Per quanto riguarda il controllo qualitativo del granulo prodotto ci sono alcuni tests direi irrinunciabili. Il calcolo dell’MFI ci dice se il materiale è adatto all’operazione di estrusione della nostra parete, questo valore dovrebbe stare tra lo 0,5 e l’1 a 190’/ 2,16 Kg. Il secondo test è il DSC che ci da’ la radiografia del nostro granulo, test indispensabile soprattutto se si vuole utilizzare una fonte da post consumo. Questa prova ci dice quanto LDPE in % è contenuto nella ricetta e quanti e quali altri componenti sono presenti. Il DSC, in particolar modo ci dice se un granulo può essere idoneo a creare pareti sottili, omogenee e lisce. Fatto il test del DSC è più facile intuire il risultato del valore della densità che è influenzata, rispetto al valore standard dell’LDPE, da materiali inclusi diversi da quello primario. Una buona regola per la valutazione della qualità del granulo da scegliere sarebbe conoscere la storia del riciclo che ha portato alla nascita dello stesso. Dopo avere parlato della scelta dell’input è buona regola conoscere il metodo di riciclo che il fornitore adotta. In particolare il tipo di lavaggio influenza in maniera importante la presenza di inquinanti con densità alta nello scarto, quindi, se l’operazione viene svolta in vasche corte o/e con una velocità di transito dello stesso alta, o con una concentrazione elevata di inquinanti nell’acqua di lavaggio a causa del suo basso ricambio, la probabilità di avere un elevato accumulo di gas o parti rigide all’interno del granulo è molto probabile. La seconda cosa da verificare è la qualità di filtrazione che è molto influenzata dalla qualità del lavaggio. Potremmo dire che ad un incremento dell’attenzione durante il lavaggio può corrispondere una minor esigenza di performance degli impianti di filtraggio. In realtà un corretto lavaggio in termini di dimensioni di vasche, velocità di transito dell’input e qualità dell’acqua non sono argomenti che destano una grande popolarità tra i riciclatori in quanto tutto si traduce in maggiori costi produttivi e a volte i prezzi dei granuli da post consumo sono decisamente compressi a causa anche della presenza sul mercato di un’offerta qualitativamente bassa a prezzi bassi. In ogni caso se si vuole realizzare un buon granulo per la parete interna del tubo corrugato flessibile queste attenzioni bisognerebbe rispettarle compresa l’operazione di filtraggio corretta che prevederebbe l’impiego di impianti in continuo o raschianti con filtri progressivi fino a 50 micron. Come ultima segnalazione in termini di materia prima suggerisco un’attenzione al grado di umidità presente nel big bag di LDPE che si acquista in quanto la presenza di questa comporta una micro deformazione della pellicola superficiale che compone la parete del nostro tubo e una difficoltà maggiore in termini di velocità dell’estrusore. L’umidità eccessiva crea quell’effetto buccia d’arancio sulle pareti che è una sorta di rugosità antiestetica e non funzionale. Tuttavia le conseguenze dell’umidità, per altro normalmente risolvibili durante l’estrusione del tubo, non è da confondere con il risultato negativo prodotto da un accumulo di gas all’interno del granulo, per il quale si hanno poche armi a disposizione.Categoria: notizie - tecnica - plastica - riciclo - tubi corrugati - LDPE - HDPE - strato internoVedi prodotto finito
SCOPRI DI PIU'I materiali per gli imballi alimentari in commercio hanno caratteristiche, qualità, costi di smaltimento e riciclabilità differentidi Marco ArezioNel mondo del packaging alimentare troviamo materie prime estremamente differenti tra loro, alcune di esse, come la carta e il vetro, hanno una storia millenaria, mentre la plastica e l’alluminio hanno una storia più recente. Non vogliamo entrare volutamente in un duello di marketing sulla preferenza tra un materiale o l’altro, ma vorremmo analizzare alcuni aspetti che riguardano la conservazione dei beni contenuti, la durabilità dell’imballo, la riciclabilità. In verità a queste analisi dovremmo aggiungere quella relativa ai costi di produzione comparati e all’impatto ambientale sulla logistica, che verranno affrontati in altra sede. Se diamo uno sguardo al passato possiamo dire che il vetro è stato il materiale principe del packaging con cui si contenevano gli alimenti liquidi, latte, vino, liquori, olio e altri generi alimentari, mentre a partire dal boom economico degli anni 60 del secolo scorso, anche l’acqua minerale e le bibite avevano trovato una loro quota di mercato attraverso la confezione nelle bottiglie. Per quanto riguarda le scatole alimentari in metallo possiamo riferirci al XIX° secolo come inizio in America e in Inghilterra delle prime produzioni industriali, nonostante i costi per realizzarle risultassero molto elevati e il cibo in scatola era quindi un lusso per pochi. A spingere la loro diffusione arrivarono però le guerre mondiali, in quanto gli eserciti trovarono comodo e logisticamente utile affidare il rancio dei soldati a questa tipologia di imballo. Con l’avvento delle lattine di alluminio iniziò una larga diffusione a partire dalla metà degli anni ’50 del secolo scorso, del cibo e delle bevande confezionate nel metallo morbido. Per quanto concerne l’uso degli imballi in carta, dobbiamo arrivare alla metà degli anni ’50 del secolo scorso per vedere l’avvio, in Svezia, dei primi imballi per liquidi alimentari in confezioni di cartone e film plastici. A partire dal 1973, quando l’azienda Du Pont brevetta il PET possiamo dire che sono nati gli imballi alimentari su larga scala, con l’intento di erodere quote di mercato a quelli di vetro. Se vogliamo fare un paragone delle qualità fisico chimiche dei principali imballi alimentari possiamo elencare alcune comparazioni generali: Cessioni possibili di sostanze costituenti l’imballo • Vetro: sodio e calcio già presenti negli alimenti • Plastica: componenti degli additivi specialmente se presenti grasso o alcool • Carta o Cartone: additivi e coloranti • Metallo: Stagno e piombo entro i limiti di legge. Sostanze tossiche dalle vernici (ad alta temperatura) Impermeabilità ai liquidi, gas ed agenti microbiologici • Vetro: 100% • Plastica: variabile a seconda del polimero • Carta o Cartone: solo se assenti abrasioni superficiali • Matallo: solo se assenti abrasioni superficiali Corrosione dell’imballo • Vetro: Solo acido fluoridrico e soluzioni alcaline a Ph superiore a 8 • Plastica: può rilasciare microplastiche in corrispondenza delle piegature • Carta o Cartone: attaccabile da insetti e topi • Metallo: generata da eventuali imperfezioni della struttura Sterilizzabilità • Vetro: 100% a secco ed a umido • Plastica: con particolari additivi batteriostatici • Carta o Cartone: in fase di confezionamento con acqua ossigenata o UV o agenti chimici • Metallo: 100% anche ad alte temperature Trasparenza • Vetro: perfetta con vetro chiaro • Plastica: dipende dal polimero, difficile con polimeri riciclati in HDPE • Carta e Cartone: no • Metallo: no Protezione alla luce Attinica • Vetro: buona nei verti colorati • Plastica: buona con additivi specifici • Carta o Cartone: opaco • Metallo: opaco Sanificazione • Vetro: ottima • Plastica: monouso da riciclare • Carta o Cartone: monouso da riciclare • Metallo: monouso da riciclare Riciclabilità • Vetro: continua e senza degrado. Economica solo con il vuoto a rendere • Plastica: possibile un certo numero di volte con qualche degrado qualitativo. Difficile il riciclo dei poliaccoppiati • Carta e Cartone: riciclabile con degrado. Difficile il riciclo dei poliaccoppiati carta-plastica • Metallo: buono In conclusione, a questa analisi andrà aggiunta una comparazione economica dell’imballo alimentare in funzione della durabilità del prodotto sugli scaffali e il costo del riciclo o dello smaltimento dell’imballo a fine vita, nonché dell’impatto ambientale sia della produzione, che della logistica che della circolarità o meno del rifiuto.Categoria: notizie - tecnica - vetro - riciclo - qualità - rottame
SCOPRI DI PIU'Crisi delle Materie Prime? Come Affrontarla nella Vita Quotidianadi Marco ArezioCi sono proclami green in ogni trasmissione televisiva, su internet, sui giornali, sui social, in merito alla necessità di ridurre i rifiuti, non solo plastici, ma di tutte le tipologie.Dagli imballi di carta e cartone degli acquisti on line, al packaging alimentare qualunque esso sia, dagli imballi delle bibite agli elettrodomestici usati, dai telefonini vecchi ai vestiti usati, dalle piastrelle rotte agli scarti alimentari, dai mobili vecchi ai materassi e molte altre cose. Se stiamo piano piano capendo che è necessario fare una raccolta differenziata corretta, per aiutare il sistema del riciclo a ridurre i materiali di scarto, cioè quelle frazioni di materiali che noi gettiamo nella pattumiera ma che non sono riciclabili, per errori di separazione in casa o per caratteristiche del prodotto, dobbiamo anche capire che non tutto è riciclabile, oggi, e che il riciclo ha comunque un impatto ambientale. Il riciclo dei rifiuti è necessario per risparmiare materie prime che preleviamo dalla natura per produrre nuovi materiali, per ridurre i rifiuti non riciclabili che potrebbero essere accumulati nelle discariche, ma, allo stesso tempo, una tale organizzazione industriale che consuma energia ha un senso se il suo impatto ambientale è sostenibile. Per sostenibilità del sistema riciclo tradizionale, intendiamo la contabilizzazione delle percentuali di rifiuti non riciclabili che si producono alla fine del processo, l’analisi delle criticità sulla creazione di queste frazioni non riciclabili, la quantità di energia green utilizzata per lavorare e riprocessare i rifiuti e l’emissione di CO2 del processo. Non è sufficiente oggi aver compreso che i prodotti non vanno buttati ma riciclati, perché a volte sarebbe meglio percorrere altre strade, se possibili, invece che avviare lo scarto al riciclo. In attesa che si consolidi il processo industriale del riciclo chimico, che permette la scomposizione chimica dei componenti di un materiale e la riutilizzazione delle molecole come nuove materie prime, senza generare rifiuti, ci si deve interrogare sul bilanciamento di molti fattori nel trattamento dei rifiuti. Inoltre, in questo periodo in cui i prezzi delle materie prime sono esplosi e c’è una marcata indisponibilità sul mercato, credo non ci sia periodo migliore per analizzare alla fonte il sistema dei consumi che generano, poi, i rifiuti. Il consumismo, nell’era attuale dell’attenzione all’ambiente, non è purtroppo cambiato rispetto al passato, si compra, si usa (poco) e si getta.. (tanto), poi qualcuno riciclerà il prodotto (forse). E’ un approccio sbagliato e negativo per l’ambiente, che comporta la mancata soluzione del problema del consumo delle materie prime naturali, dei costi ambientali del riciclo e dei rifiuti che finiscono in discarica. Non si può colpevolizzare completamente il cittadino disattento al problema, senza tenere in considerazione la scarsa attenzione della politica al sul tema, ma oggi, è necessario lavorare in squadra per migliorare la situazione ambientale e ridurre i costi dei prodotti. Se prendiamo in considerazione i prodotti che generano più rifiuti, possiamo identificare, tra gli altri, gli imballi degli articoli che compriamo, fatti spesso di materiali la cui vita potrebbe essere molto lunga, decenni, ma che li utilizziamo con il principio dell’usa e getta. Le bottiglie delle bibite e dell’acqua in vetro o in plastica, i flaconi dei detersivi o dei prodotti per il corpo, le vaschette alimentari, ecc.. Tutti questi materiali sono fatti con materie prime durevoli e quindi si deve far in modo che non vengano buttati alla fine dell’utilizzo, anche se andrebbero nel flusso del riciclo (oneroso), ma si deve fare in modo che siano restituibili al fornitore per il loro nuovo riempimento o vengano riempite dal cittadino stesso riutilizzando l’imballo. Parliamo quindi di vuoto a rendere per i prodotti da igienizzare e vuoto da riempire, per esempio, per i detersivi o i saponi, posizionando nei negozi boxes per riempire le bottiglie da riutilizzare. Il vuoto a rendere, però, non sempre è conveniente, in quanto implica il trasporto dell’imballo vuoto con un impatto ambientale elevato, quindi, se il punto di ricarica è lontano dal consumatore, potrebbe essere meno gravoso riciclarlo. Qui diventa una responsabilità sociale istruire il cittadino sul vero impatto ambientale di una scelta di acquisto senza permettere le azioni di Greenwashing che il produttore del bene potrebbe fare. Atri due temi importanti riguardano il riutilizzo dei beni e il km. Zero. Molti articoli vengono buttati, senza una reale riduzione delle caratteristiche della funzionalità del prodotto o dell’estetica, per poi comprare di nuovi. Il concetto del riuso dei prodotti non significa andare, saltuariamente, nei mercatini rionali per cercare il prodotto usato, ma creare una rete di raccolta di articoli riutilizzabili, con la collaborazione di produttori, che ricondizionino l’oggetto, lo aggiustino se necessario, ne emettano una garanzia e lo si inserisca nuovamente sul mercato. Un telefonino di ultima generazione può diventale obsoleto dal punto di vista del marketing in poco meno di un anno, ma eccellente e ambito per chi non segue le mode, perché buttalo? Per quanto riguarda il Km. Zero è sempre più necessario, in un’ottica di riduzione delle emissioni di CO2 e per ridurre i costi generali del prodotto, i cui costi di movimentazione sono sempre ricalcolati all’interno del prodotto, cercare di comprare merce prodotta sempre più vicina all’ambito del consumo. Perché comprare una bottiglia di acqua minerale che viene da un luogo distante 500 Km. da me quando ho una fonte che produce un prodotto simile a 50 K.? (o perché non bere l’acqua del rubinetto o andare a riempire l’acqua gassata dai dispenser comunali?). Perché comprare una candela che viene dall’altra parte del mondo quando nel nostro paese ci sono le cererie che le producono, solo per fare degli esempi. Ci potrebbero essere mille altri esempi che riguarderebbero il modo di gestire della nostra mobilità quotidiana, le nostre scelte alimentari, quelle politiche, sociali, culturali, e molte altre. Ricordiamoci che ogni nostra scelta di acquisto crea più o meno inquinamento.Categoria: notizie - plastica - economia circolare - riciclo - rifiutiFoto: WP.F.
SCOPRI DI PIU'Abbiamo già avuto modo di parlare degli atteggiamenti consumistici dei giorni nostri in molti settori merceologici, ma la moda, forse, incarna a pieno questi comportamenti discutibilidi Marco ArezioLa moda sta passando da un consumo veloce ad uno ultra veloce, con la conseguenza di comprare, vestire e buttare tutto in un lasso di tempo esiguo. Questo atteggiamento è facilitato dalla riduzione di costi dei vestiti che si è compiuto attraverso la globalizzazione delle produzioni, incentrate prevalentemente in paesi poveri o poverissimi e dall’uso di fibre sintetiche sempre più a buon mercato. Inoltre, le catene distributive internazionali, hanno creato un business basato meno sul profitto del singolo capo e più sulla quantità di vendite elevate in alta rotazione. La corsa a comprimere i prezzi finali dei capi si è riverberato su tutta la filiera, creando marginalità sempre più piccole per la logistica e naturalmente la produzione. Se le vendite diminuiscono si perde la sostenibilità finanziaria di un indotto enorme, che metterebbe in crisi il sistema. Per questo, si produce sempre di più, si consumano sempre più materie prime e si creano sempre più rifiuti. Questa spirale sembra un vantaggio per l’acquirente finale che trova un capo di abbigliamento a buon mercato, ma è assolutamente deleterio per l’ambiente e per chi ci lavora. Se guardiamo il problema dal punto di vista ambientale, possiamo dire che una rotazione così alta dei capi di abbigliamento, la cui maggior parte giacciono inusati nei nostri armadi, comporta: • un utilizzo elevatissimo di materie prime sintetiche, plastica principalmente, che hanno un impatto ambientale molto negativo sia nella produzione che nello smaltimento. • una dispersione di nanoplastiche nell’ambiente durante i lavaggi, materiali che finiscono attraverso gli scarichi, nei fiumi e nei mari ed entrano nella catena alimentare. Questo vuol dire che ci rimangiamo, a piccole dosi i vestiti che continuiamo a comprare. • una quantità sempre maggiore di rifiuti tessili, che possono essere anche pericolosi per l’ambiente per via delle tinte di cui sono impregnati e per la bassa o nulla biocompatibilità. • una problematica crescente per lo smaltimento dei di rifiuti tessili nel mondo a causa della scarsa propensione alla circolarità della filiera, quindi al riciclo. Se poi guardiamo il problema dal punto di vista sociale, la lotta all’economia di scala imperante nel settore ha imposto marginalità sempre più piccole per i lavoratori della filiera. Di questi problemi ci ricordiamo solo quando succedono delle tragedie, come gli incendi nelle ditte di confezionamento dei capi, o nelle aziende di tintura, o nelle fabbriche di scarpe, tutti posizionate in paesi del terzo mondo. Un atteggiamento oppressivo e di sfruttamento dei lavoratori si manifesta in vari modi: • distribuzione del lavoro di rifinitura dei capi in paesi dove la manodopera costa pochissimo e la produzione oraria è elevata • sfruttamento del lavoro minorile per ridurre ulteriormente i costi a disprezzo delle norme internazionali del lavoro e dell’abbandono scolastico • potere contrattuale tra fornitore e cliente assolutamente sbilanciato verso quest’ultimo attraverso il quale non esiste dignità lavorativa • disprezzo per le problematiche ambientali che si possono manifestare nei paesi di produzione dei capi. Come abbiamo sempre detto il potere reale per cambiare le cose lo ha sempre in mano il consumatore finale, che può modificare il corso delle cose facendo acquisti più sostenibili e cambiano le sue abitudini nel campo dell’abbigliamento. Ognuno di noi può responsabilizzarsi nei confronti delle problematiche urgenti che assillano il nostro pianeta e verso chi sta lavorando nel settore della produzione della moda, cercando di fare qualche cosa per contribuire al suo miglioramento e forse, un giorno alla sua risoluzione. Che cosa possiamo fare? • uscire dalla logica della moda ultra veloce, facendo durare di più i capi che abbiamo già, limitando nuovi acquisti, che per la maggior parte potrebbero essere superflui e acquistare solo le cose necessarie. • Non diventare succubi del marketing delle aziende della moda (ma in generale di qualsiasi altro settore) che spinge a sempre nuovi acquisti, manipolando la nostra mente, creando necessità che probabilmente non ci sono, facendo leva sulle debolezze psicologiche della popolazione, come la crescita dell’autostima facendo shopping. • contribuire a far crescere la moda lenta, fatta di capi che non invecchiano ai nostri occhi, porre attenzione alla loro conservazione, imparare nuovamente a fare piccole riparazioni di sartoria per non perdere quella manualità che c’era un tempo nelle famiglie. • partecipare ai nuovi movimenti che permettono lo scambio di vestiti ed accessori o facendo acquisti di capi usati con lo scopo di risparmiare soldi, risorse ambientali e partecipando alla riduzione die rifiuti. • Rifiutare la globalizzazione degli stili e promuovere lo scambio di culture produttive diverse, in modo da ricostruire le filiere multilateralmente a discapito della produzione di pochi marchi internazionali. Ricordati che ogni acquisto che fai incide più o meno sull’inquinamento del pianeta.Categoria: notizie - tessuti - economia circolare - riciclo - rifiuti - moda Foto: WP.F
SCOPRI DI PIU'Le componenti caratteriali dei managers, a tutti i livelli, sono fondamentali per la buona salute dell’aziendadi Marco ArezioIn una realtà imprenditoriale moderna ed efficiente, di qualsiasi dimensione essa sia, la componente umana fa sempre la differenza. Questa situazione non appare, solitamente, nella breve vita delle aziende, dove la tecnologia e i mezzi di comunicazioni digitali assicurano una parte importante del successo delle attività, ma se consideriamo un arco di tempo più ampio, in cui la concorrenza ha un certo equilibrio in campo, entrano in gioco le risorse umane a fare la differenza. Una volta acquisita una certa posizione nel mercato, ci si deve confrontare con le altre realtà imprenditoriali, cercando di rimanere il più a lungo possibile in una situazione di relativa competitività e sopravvivenza aziendale. Le risorse umane, attraverso le loro catene di comando, portano motivazioni, idee, impegno, dedizione e forza al marchio, imprimendo piccoli ma costanti scostamenti di posizione tra azienda e azienda. Questi piccoli successi o insuccessi sono determinati dalla qualità dei componenti dei team aziendali che, attraverso il loro impegno, la loro capacità e il loro singolo carattere, determineranno miglioramenti o peggioramenti delle posizioni sul mercato. Il carattere dei managers gioca un ruolo fondamentale, a tutti i livelli di comando, non solo quelli apicali, ma molto spesso, quelli intermedi, hanno un ruolo fondamentale. I teams di lavoro hanno leaders che devono saper indirizzare i componenti, spronarli, consigliarli e buttarsi nella mischia con loro, mantenendo la leadership, creando un clima positivo e carismatico che galvanizza il lavoro. Deve saper premiare e punire, con la giusta moderazione ed imparzialità, i componenti del team senza eccedere in favoritismi o perdoni eccessivi, così da dare un’immagine equidistante del suo lavoro e sottolineando l’importanza del gruppo prima che del singolo. Questa azione sottintende un carattere del manager sicuro e risoluto, flessibile ma imparziale, determinato ed indipendente, che ha ben chiaro quali siano gli obbiettivi che gli sono stati affidati dall’azienda. Ma cosa succede se in una posizione di leader troviamo una persona poco sicura di sé? Il primo problema da affrontare è la sua necessità di continue conferme della legittimazione sua posizione, sia nei confronti dei superiori che delle persone che dal lui dipendono. Se nel primo caso, a volte è meno impattante, invece, la ricerca di conferme tra i collaboratori che deve dirigere crea una commistione di ruoli e un indebolimento della sua posizione. Il leader insicuro ha bisogno di un gruppo di collaboratori che lo elogino, che lo rassicurino, che lo facciano sentire al centro del progetto e che colmino quella sua mancanza di sicurezza. Questa situazione però, spesso spacca i gruppi di lavoro, in quanto ci sono collaboratori che si aspettano di essere guidati e protetti dal manager e non il contrario, mettendo in cattiva luce chi crea un rapporto di eccessiva confidenza con i leaders. Inoltre, capita spesso che durante le difficoltà a raggiungere gli obbiettivi previsti dall’azienda, questa punti il dito sul leader del gruppo che, per tutelarsi, non proteggerà l’intero team, ma potrebbe scaricare le colpe verso quella parte di persone che non lo sostengono apertamente come lui vorrebbe. Qui scatta il meccanismo contrario per cui il leader cerca di difendersi, assecondando i suoi superiori, al fine di salvaguardare la sua posizione a discapito degli altri. Passata la tempesta il manager insicuro metterà, probabilmente, al margine le persone a lui non favorevoli, puntando solo su chi lo sostiene, in quanto, spesso, rimane una persona rancorosa, che vorrebbe avere un appoggio esteso ed incondizionato che lo rassicurasse. Si creeranno rapporti ambigui, non sinceri, piccole vendette, un certo lassismo, una strisciante rassegnazione a fare il minimo indispensabile da una parte del team, creando inefficienza, perdita di competitività e valore aziendale. Per superare questi rapporti dolorosi e inefficienti per l’azienda è necessario creare gruppi di lavoro o di ascolto, in cui vengano mischiate le risorse umane, seguiti da leaders che abbiano competenza con la gestione delle risorse umane o abbiano una estrazione di carattere psicologica e relazionare, in modo da liberare le persone, attraverso il confronto su altri temi, della paura di venire allo scoperto. Questo serve per indagare i lati positivi e quelli negativi o pericolosi che aleggiano nei gruppi di lavoro dell’azienda, in modo da raccogliere le maggiori informazioni possibili, confrontarle, incrociarle e intervenire.
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