di Marco ArezioE’ sicuramente una provocazione dire che alcune tipologie di plastica, come le bottiglie in PET, i flaconi in HDPE e altre tipologie di imballi plastici, per via della loro densità, sono destinate a galleggiare e, quindi, ad attirarsi le ira, comprensibili se non si conosce il problema, di chi dà vita ai movimenti plastic free.E’ sempre una provocazione dire che se il peso specifico dei prodotti plastici fosse diverso e, come altri materiali da imballo, andassero a fondo, probabilmente ci illuderemmo che, non vedendoli galleggiare, non esista un reale problema ambientale. Non solo sono due provocazioni, ma un insulto all’intelligenza umana, pensare di fare come lo struzzo, mettendo la testa sotto la sabbia per nasconde il problema. Ma in realtà l’effetto emotivo delle isole di plastica che galleggiano nei mari ha fatto nascere un’avversione al prodotto, senza pensare cosa succede sotto il livello di galleggiamento dei mari e come ha fatto, tutta quella plastica, ad arrivare fino a li. Bidoni in metallo, bottiglie di vetro, carcasse di auto, lavatrici, telefonini, scarti di cavi, ruote, televisori, pneumatici, reti da pesca, elettrodomestici di scarto, tubi in metallo, raccordi, sedie, tavoli, divani, lampadari, ceramiche, calcinacci, rifiuti di cantiere e molti altri prodotti, sono regolarmente riversati in mare ogni anno. Li vediamo? No, a meno che ci immergiamo con un piccolo sommergibile di profondità e andiamo a vedere i disastri che fa l’uomo, la stupidità e l’ignoranza del genere umano. Dei milioni di tonnellate di rifiuti che entrano in mare ogni anno sembra che quelli visibili siano solo l’1%, in quanto galleggiano o vengono spiaggiati dalle correnti e maree, mentre il 99% è depositato nei fondali. Ma tornando ai movimenti plastic free, tutti questi prodotti che giacciono nelle discariche in fondo al mare non vengono normalmente citati, non viene fondato un movimento “bottiglie di vetro free” o un “pneumatico free” o un “televisori free”, ciò che non si vede non impatta emotivamente e non ha audience, non movimenta le folle. Ma se cambiassimo la densità dei materiali in modo da rendere affondabile tutta la plastica e galleggiabili tutti gli altri rifiuti, forse, i mari non sarebbero più navigabili e ci scaglieremmo non più contro la plastica, che non si vedrebbe, ma con tutti i prodotti fatti con diversi materiali, come il ferro, l’alluminio, il vetro, l’acciaio, la gomma, il rame…. Ma se i fondali sono pieni di rifiuti diversi dalla plastica e la superficie dei mari e le spiagge sono pieni di plastica, di chi è la colpa? Che senso ha prendersela con un singolo prodotto quando i fondali contengono molta più spazzatura di diversa natura di quella che si vede in superficie? Il problema è l’assurda inciviltà dell’uomo che utilizza i fiumi, i mari e gli oceani come discariche, pensando di risolvere un problema dei rifiuti in casa sua, per poi rimangiarseli attraverso le catene alimentari. Dove è l’intelligenza della razza superiore rispetto agli animali? Approfondisci l'argomento
SCOPRI DI PIU'Se i termovalorizzatori nascono per utilizzare correttamente l’End of Waste, le cementerie lasciano molti dubbidi Marco ArezioNell’ottica dell’economia circolare, lo scarto dei prodotti del riciclo plastico, che per sua composizione chimica non può essere utilizzato, ha una valenza termica come combustibile. Ma se l’End of Waste non può essere riciclato è perché è composto da un mix di scarti plastici che, se bruciati nei forni, determinano l’emissione di sostanze tossiche che non devono essere immesse in atmosfera. Per questo sono nati i termovalorizzatori. Gli impianti di termovalorizzazione sono progettati, costruiti e destinati alla combustione dell’End of Waste, tenendo in considerazione il processo chimico di trasformazione delle varie plastiche sotto l’effetto del calore. Questo processo comporta la produzione di fumi nei quali sono contenute sostanze pericolose per l’uomo e l’ambiente che, un impianto nato per questo lavoro, gestisce in modo corretto, con l’obbiettivo di abbattere le sostanze dannose. E’ una pratica comune però, destinare una parte dell’End of Waste anche agli impianti di produzione del cemento, che lo utilizza come comburente per i propri forni a prezzi contenuti, ma attraverso impianti che non sono stati progettati specificatamente per lo smaltimento dei rifiuti. Ma cos’è l’End of Waste? Nelle corrette politiche di gestione dei rifiuti urbani ci sono due categorie di scarti che vengono raccolti e trattati in modo diverso e con scopi diversi: I rifiuti organici, che produciamo quotidianamente nell’ambito domestico, che vengono conferiti nei centri di raccolta dei rifiuti differenziati. Questi prodotti vengono trattati per la produzione di biogas, fertilizzante, anidride carbonica per uso anche alimentare ed energia elettrica. I rifiuti urbani, sotto forma di plastiche miste, che vengono selezionati per tipologia di plastica e avviati al riciclo trasformandoli in scaglie, densificati e polimeri. Nell’ambito della selezione delle frazioni di plastica emergono alcune famiglie, le cui caratteristiche non si prestano ad una selezione meccanica come, per esempio, i poli accoppiati, plastiche formate da famiglie di polimeri differenti tra loro ed incompatibili. Quando una plastica, alla fine del suo ciclo non è recuperabile in modo meccanico, può assumere una importante valenza termica creando un materiale comburente, di caratteristiche caloriche decisamente apprezzabili, che aiuta, attraverso il suo utilizzo, a continuare il cammino dell’economia circolare. Infatti, oltre a non mandare in discarica questa frazione di plastiche miste, che in termini di volume annuo è decisamente importante, possiamo risparmiare l’utilizzo di risorse naturali derivanti dal petrolio. Con l’End of Waste si alimentano oggi principalmente centrali elettriche e cementifici. L’utilizzo di questo rifiuto nelle centrali elettriche ha ridotto la dipendenza anche verso il carbone, carburante fossile con un tenore di inquinamento molto elevato e responsabile di problemi legati alla salute dei cittadini che vivono nelle vicinanze delle centrali. La produzione di energia elettrica, attraverso l’End of Waste, ha permesso di calibrare la progettazione degli impianti rispetto al prodotto che serve come combustibile, creando un’alta efficienza ecologica rispetto ad altri sistemi. Nel nord Europa la produzione di energia attraverso la combustione di rifiuti plastici non riciclabili, risulta un buon compromesso tra risultato tecnico e ambientale. Il secondo ambito di utilizzo del carburante derivato dall’ End of Waste riguarda l’uso nelle cementerie, che lo impiegano per alimentare i forni per la produzione di clinker. Secondo uno studio fatto Agostino di Ciaula, gli impianti per la produzione di clinker/cemento non sarebbero adeguati, dal punto sanitario, ad impiegare questo tipo di rifiuto plastico. In base a queste ricerche, l’impiego dell’End of Waste nei cementifici, in sostituzione di percentuali variabili di combustibili fossili, causa la produzione e l’emissione di metalli pesanti, tossici per l’ambiente e dannosi per la salute umana. Queste sostanze quando emesse nell’ambiente, sono in grado di determinare un aumento del rischio sanitario per i residenti a causa della loro non biodegradabilità (persistenza nell’ambiente), della capacità di trasferirsi con la catena alimentare e di accumularsi progressivamente in tessuti biologici (vegetali, animali, umani). È stato dimostrato che, per alcuni metalli pesanti (soprattutto quelli dotati di maggiore volatilità), il fattore di trasferimento di queste sostanze dal combustibile derivato da rifiuti alle emissioni dell’impianto, è di gran lunga maggiore nel caso dei cementifici, quando confrontati con gli inceneritori classici. Questo valore è significativamente superiore a quello rilevabile in seguito all’utilizzo di End of Waste in impianti progettati per questo scopo (Termovalorizzatori) e, negli stessi cementifici, in misura maggiore rispetto al solo utilizzo di combustibili fossili. Questo impiego è in grado di incrementare le emissioni nell’ambiente di diossine, PCB e altri composti tossici clorurati persistenti con conseguenze negative sulla salute umana. Fattori di trasferimento considerevolmente maggiori per i cementifici sono anche evidenti nel caso del cadmio, sostanza riconosciuta come cancerogeno certo (emissioni percentuali 3.7 volte maggiori nel caso dei cementifici) e del piombo (fattore di trasferimento percentuale 203 volte maggiore nel caso dei cementifici). Nonostante le misure tecnologiche di limitazione delle emissioni adottate dai cementifici, considerato l’elevato volume di fumi emessi da tali impianti, la quantità totale di Hg che raggiungerà l’ambiente sarà, comunque, tale da incrementare in maniera significativa il rischio sanitario dei residenti nei territori limitrofi. Limitando l’analisi al solo mercurio, è stato calcolato che ogni anno in Europa nascono oltre due milioni di bambini con livelli di mercurio oltre il limite considerato “di sicurezza” dall’OMS. Pur tralasciando l’incremento del rischio sanitario da emissione di metalli pesanti cancerogeni presenti nell’End of Waste (arsenico, cadmio, cromo, nichel), problemi altrettanto rilevanti derivano dalla presenza, concessa nel rifiuto stesso, di quantità rilevanti di piombo. Il fattore di trasferimento del piombo, dall’End of Waste alle emissioni, è circa 203 volte maggiore nei cementifici, rispetto agli inceneritori tradizionali, e i valori emissivi sono resi, nel caso dei cementifici, ancora più problematici da un volume medio di fumi emessi, circa cinque volte maggiore nei cementifici rispetto agli inceneritori classici. Anche per il piombo, come per gli altri metalli pesanti, il rispetto dei limiti di legge non è in grado di tutelare adeguatamente l’età pediatrica. L’esposizione a piombo, infatti, come quella da mercurio, inizia durante la vita fetale (in utero) e comporta un accumulo progressivo e irreversibile nell’organismo. Per limitarsi all’assunzione di piombo attraverso l’acqua potabile, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’assunzione di acqua con concentrazioni di piombo pari a soli 5 μg/L comporta un apporto totale di piombo che varia da 3.8 μg/giorno in età pediatrica a 10 μg/giorno per un adulto. Un altro problema riscontrato sono le emissioni di diossina, che anche se contenute all’1% è pur sempre una quantità da considerarsi ad alto rischio per la formazione e la conseguente emissione in atmosfera di diossine, (delle quali il cloro è precursore) e altri composti tossici clorurati, da parte dei cementifici che impieghino la co-combustione dell’End of Waste in sostituzione dei combustibili fossili. Le alte temperature presenti in alcuni punti del ciclo produttivo di questi impianti favoriscono la disgregazione delle diossine. Tuttavia, evidenze scientifiche mostrano con chiarezza come, sebbene le molecole di diossina abbiano un punto di rottura del loro legame a temperature superiori a 850°C, durante le fasi di raffreddamento, (nella parte finale del ciclo produttivo la temperatura scende sino a circa 300°C) esse si riaggregano e si riformano, comparendo di conseguenza nelle emissioni. Rapporti SINTEF e pubblicazioni scientifiche internazionali, documentano la produzione di diossine e di naftaleni policlorurati da parte di cementifici con pratiche di co-combustione e, un recente studio, ha dimostrato quantità considerevoli di diossine nella polvere domestica di case localizzate nei territori limitrofi a cementifici con co-combustione di rifiuti. La Convenzione di Stoccolma richiede la messa in atto di tutte le misure possibili utili a ridurre o eliminare il rilascio nell’ambiente di composti organici clorurati (POPs) e, i cementifici con co-combustione, di rifiuti sono esplicitamente menzionati in essa. Inoltre, anche quando le emissioni di diossine siano quantitativamente contenute, l’utilizzo di combustibile derivato da rifiuti plastici, può generare la produzione e l’emissione di ingenti quantità di PCB (concentrazioni migliaia di volte superiori), composti simili alle diossine in termini di pericolosità ambientale e sanitaria. Le diossine sono composti non biodegradabili, persistenti nell’ambiente con una lunga emivita (che per alcuni congeneri arriva a superare il secolo), trasmissibili con la catena alimentare e, soprattutto, bio-accumulabili. La Environmental Protection Agency (USA EPA) ha recentemente ricalcolato il livello giornaliero di esposizione a diossine considerato non a rischio per l’organismo umano, che è pari a 0.7pg (0.0007ng) di diossine per Kg di peso corporeo.Categoria: notizie - plastica - economia circolare - rifiuti - termovalorizzatoriApprofondisci l'argomento
SCOPRI DI PIU'Nonostante gli sforzi per far crescere l'economia circolare e il riciclo, il consumo delle risorse della terra non diminuisce, anzi aumenta di Marco ArezioL'economia circolare, un concetto centrale nel panorama ambientale odierno, si trova di fronte a nuove sfide, di cui una delle più significative è l'aumento previsto del 60% nell'estrazione delle materie prime entro il 2060. Questo scenario solleva interrogativi cruciali sul nostro approccio attuale alla gestione delle risorse e sottolinea l'importanza di rafforzare e promuovere pratiche sostenibili. L'aumento dell'estrazione e le sue implicazioni L'incremento del 60% nell'estrazione delle materie prime rappresenta una crescita sostanziale che potrebbe influenzare negativamente gli sforzi per ridurre l'impatto ambientale. Attualmente, molte industrie si affidano a risorse naturali non rinnovabili per la produzione di beni di consumo. Questo aumento potrebbe portare a un esaurimento accelerato delle risorse, mettendo a rischio la stabilità ecologica e la disponibilità di tali materiali. Le sfide per l'economia circolare In un contesto in cui l'estrazione di materie prime è destinata a crescere in modo significativo, l'economia circolare deve affrontare diverse sfide. Una delle principali consiste nel rivedere e rafforzare i processi di riciclo e riutilizzo, incentivando pratiche che minimizzino la dipendenza dalle risorse vergini. Ciò richiede una collaborazione più stretta tra imprese, governi e consumatori per sviluppare e adottare soluzioni innovative. La centralità della piattaforma rMIX In questo contesto, la piattaforma rMIX riveste un ruolo cruciale nel facilitare l'interazione tra coloro che offrono e cercano prodotti riciclati. Attraverso questa piattaforma, è possibile promuovere attivamente la circolarità economica, consentendo agli operatori di accedere a risorse rinnovabili e di qualità senza aumentare la pressione sull'estrazione delle materie prime. Un ambiente digitale che favorisce l'economia circolare è fondamentale per raggiungere gli obiettivi di sostenibilità. La necessità di un approccio olistico Affrontare l'aumento previsto dell'estrazione delle materie prime richiede un approccio olistico. Oltre a incoraggiare l'uso di materiali riciclati, è essenziale investire in ricerca e sviluppo per scoprire alternative sostenibili e ridurre la dipendenza dalle risorse naturali. Inoltre, la sensibilizzazione e l'educazione sono fondamentali per coinvolgere la società nella transizione verso un'economia più circolare. In conclusione, il futuro dell'estrazione delle materie prime rappresenta una sfida significativa per l'economia circolare. Tuttavia, con l'impegno collettivo, l'innovazione e l'uso di piattaforme come rMIX, possiamo mitigare gli impatti negativi e creare un ambiente sostenibile per le generazioni future. L'economia circolare è la chiave per bilanciare la crescita economica con la conservazione delle risorse, e oggi più che mai, la collaborazione è essenziale per raggiungere questo obiettivo.
SCOPRI DI PIU'Quali miglioramenti fisico-meccanici degli impasti polimerici si ottengono con l'utilizzo delle nanocarichedi Marco ArezioNella produzione di polimeri riciclati o compounds con polimeri vergini, alcune ricette prevedono l’aggiunta di una certa percentuale di cariche minerali al fine di modificare alcune caratteristiche. Tra quelle più usate troviamo il carbonato di calcio, il talco, la fibra di vetro e la mica, sotto forma di polvere, granuli o fibra, che vengono dispersi in fase di miscelazione con il polimero. Il talco e il carbonato di calcio vengono normalmente aggiunti in percentuali variabili dal 10 al 50% per modificare alcune caratteristiche dei polimeri, come la resistenza meccanica a compressione, la lavorabilità, la riduzione di dilatazione, il miglioramento o la riduzione della fluidità o, semplicemente per questioni economiche. L’uso delle cariche minerali negli impasti polimerici porta anche con sé alcune problematiche da tenere presente, in funzione delle percentuali d’uso e del tipo di carica. In generale, si può dire che la densità dell’impasto polimerico aumenta, la brillantezza dei colori diminuisce, la fragilità del prodotto può diventare consistente e l’usura delle macchine tende ad incrementare. Molte di queste caratteristiche negative durante le lavorazioni, ma che si riverberano anche sui prodotti finiti, possono essere risolte utilizzando le nanocariche. Queste ultime possono essere definite come una nuova classe di materiali compositi, costituiti da una matrice polimerica e da rinforzi particellari, aventi almeno una dimensione dell’ordine del nanometro. Queste nanocariche si possono definire, a tutti gli effetti, dei nanofiller e vengono classificate i tre categorie in base alla loro struttura: • nanocariche 3D (isodimensionali) definite come nano particelle o nanosfere con una dimensione inferiore a 100 nm. • fibre o tubi aventi diametro inferiore a 100 nm. come, per esempio, i nanotubi di carbonio. • nano-layers, sono caratterizzati da una sola dimensione dell’ordine dei nanometri, tipicamente si presentano in forma di cristalliti inorganici stratificati in cui ogni strato possiede uno spessore di alcuni nanometri, mentre le altre due dimensioni possono raggiungere anche le migliaia di nanometri (per esempio le nanoargille). Il vantaggio delle nanocariche, oltre ad altre, è la migliore dispersione rispetto a quelle minerali, con una migliore adesione alla matrice e un miglior saturazione degli spazi. Inoltre, possiamo citare un altro vantaggio fondamentale che riguarda il miglioramento delle prestazioni fisiche e meccaniche dell’impasto polimerico, con una bassa percentuale di utilizzo. Mentre, come abbiamo detto, per modificare le caratteristiche degli impasti polimerici attraverso le cariche minerali si utilizzano percentuali variabili tra il 10 e il 50%, con le nanocariche la percentuale di utilizzo è intorno al 5-10%. Questa ridotta percentuale porta a limitare l’innalzamento della densità e a migliorare la lavorabilità rispetto ad altri sistemi di carica tradizionali. Se consideriamo un impasto polimerico con un 5% di nanocariche, possiamo dire che le proprietà fisco-meccaniche possono essere superiori, rispetto al polimero base e anche allo stesso caricato con un filler minerale. In particolare avremo: • maggiore resistenza all’abrasione e all’urto • maggiore rigidità • diminuzione del valore di espansione termica • maggiore stabilità dimensionale • ridotta permeabilità al gas • migliore resistenza ai solventi • minore rilascio di calore durante la combustione • facilità di riciclabilità Inoltre, ci sono dei vantaggi estetici utilizzando le nanocariche, che sono comparabili all’uso del solo polimero originale, in quanto una migliore distribuzione nella massa crea una migliore qualità superficiale rispetto all’uso delle cariche tradizionali. In particolare possiamo citare una migliore trasparenza ottica, una minore rugosità, una migliore brillantezza dei colori e una migliore stabilità dimensionale del prodotto nel tempo. Categoria: notizie - tecnica - plastica - nanocariche polimeriche
SCOPRI DI PIU'La depolimerizzazione della plastica attraverso i nuovi enzimi sarà l'alternativa al riciclo meccanico e chimico?di Marco ArezioOggi la produzione di rifiuti plastici continua ad essere superiore alla capacità del loro riciclo meccanico, tanto è vero che si stanno studiando soluzioni integrative per ridurre questo gap. Oltre alle innumerevoli strade che potrebbe aprire il riciclo chimico, l’ingegneria biologica sta facendo passi enormi sull’individuazione di corretti enzimi che possano degradare la plastica. Attraverso uno studio da parte di un team di scienziati Americani, volto ad individuare un enzima modificato, sono state studiate combinazioni di aminoacidi che potessero degradare il PET in tempi più veloci rispetto al passato. L'organismo ha due enzimi che idrolizzano il polimero prima in mono-(2-idrossietil) tereftalato e poi in glicole etilenico e acido tereftalico da utilizzare come fonte di energia. Un enzima in particolare, la PETasi, è diventato l'obiettivo degli sforzi di ingegneria proteica per renderlo stabile a temperature più elevate e aumentare la sua attività catalitica. Un team attorno ad Hal Alper dell'Università del Texas ad Austin negli Stati Uniti, ha creato una PETasi in grado di degradare 51 diversi prodotti in PET, inclusi contenitori e bottiglie di plastica interi. Nella costruzione dello studio si sono avvalsi di un algoritmo che ha utilizzato 19.000 proteine di dimensioni simili e, per ogni aminoacido di PETase, il programma ha studiato il loro adattamento all’ambiente in cui vivevano rispetto ad altre proteine. Un amminoacido che non si adatta bene può essere fonte di instabilità e l'algoritmo suggerisce un amminoacido diverso al suo posto. Si sono poi verificate milioni di combinazioni e, alla fine del lavoro di analisi, i ricercatori hanno puntato su tre soluzioni che sembravano quelle più promettenti. Intervenendo ulteriormente con modifiche dirette, gli scienziati hanno creato un enzima molto attivo sul PET che lavorava con rapidità e a temperature più basse rispetto al passato. A 50°C, l'enzima è quasi due volte più attivo nell'idrolizzare un piccolo campione di un contenitore per alimenti in PET rispetto a un'altra PETasi ingegnerizzata a 70°C. L'enzima ha persino depolimerizzato un intero vassoio di plastica per torte in 48 ore e il team ha dimostrato che può creare un nuovo oggetto di plastica dai rifiuti degradati. E’ importante sottolineare che i tests sono stati fatti non su campioni di PET amorfo appositamente realizzati in laboratorio, ma su imballi in PET acquistati direttamente ai supermercati. Questo avvicina ancora di più le prove eseguite al contesto in cui si dovrebbe operare, cioè nell’ambito del riciclo o della depolimerizzazione delle plastiche. Resta da vedere se la depolimerizzazione enzimatica verrà infine utilizzata per il riciclaggio su larga scala. Infatti, la maggior parte del PET nel mondo viene riciclato non per depolimerizzazione, ma per fusione e rimodellamento, ma le sue proprietà si deteriorano ad ogni ciclo. Come abbiamo detto esistono alcuni metodi di depolimerizzazione chimica, ma comportano un consumo di energia molto alto e, nell’ottica della circolarità dei prodotti, l’aspetto dell’impatto ambientale che il riciclo comporta è da tenere in considerazione, specialmente quando non si dispone di energie rinnovabili. Il grande vantaggio degli enzimi è che possono essere molto più specifici dei catalizzatori chimici e, quindi, potrebbe essere più semplice, in teoria, degradare un flusso di rifiuti. Gli scienziati non nascondono però che lo studio degli enzimi che depolimerizzano il PET, per quanto complicato e lungo, potrebbe essere addirittura più semplice rispetto alla loro applicazioni su poliolefine o su plastiche miste. Categoria: notizie - tecnica - plastica - riciclo - PET - depolimerizzazione
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