L’impianto di Versalis di Mantova (IT) Fermerà per ManutenzioneLa direzione dell’impianto di produzione dei polimeri stirenici in ABS di Versalis Mantova, attraverso un comunicato, ha annunciato lo stop delle produzioni per dare avvio ad un piano di ammodernamento degli impianti di produzione nei mesi di Giugno e Luglio di quest’anno.Infatti, Versalis (Eni) informa che sono iniziate le operazioni propedeutiche alla fermata generale programmata per la manutenzione e i nuovi investimenti previsti nello stabilimento di Mantova. Le attività saranno eseguite per fasi: nei mesi di giugno e luglio 2021 è previsto il picco delle operazioni presso gli impianti. Le attività di manutenzione riguardano gli impianti stirenici e intermedi (stirolo monomero, fenolo e derivati, polimeri e i servizi di stabilimento) e un nuovo importante investimento per l’espansione della produzione di polimeri stirenici ABS, per una capacità aggiuntiva di 30mila tonnellate/anno, verso gradi differenziati e ad alto valore aggiunto, destinati a settori chiave come automotive, arredamento ed elettrodomestici. Gli investimenti prevedono anche interventi per il miglioramento tecnologico e di affidabilità e di efficientamento energetico e ambientale per un totale di oltre 40 milioni di euro di investimenti nel biennio 2020-2021. Nel cantiere, che durerà circa due mesi, saranno coinvolte circa 30 imprese, con una presenza di picco di 600 persone di ditte terze. Saranno costruiti 60 mila metri cubi di ponteggi e ispezionate 600 apparecchiature. Le attività vedranno impegnati un team dedicato alla sicurezza integrato dal supporto delle squadre del Safety Competence Center di Eni e personale dedicato alla sorveglianza sanitaria. In particolare, è stato previsto un protocollo di misure aggiuntive a quelle già attuate e un programma di screening epidemiologico per la prevenzione e il contrasto al Covid-19 al fine di garantire la massima tutela della salute dei lavoratori e delle comunità locali. La più importante delle misure attuate è la campagna di test tramite tamponi rapidi in un’area dello stabilimento appositamente attrezzata che verrà avviata, su base volontaria anche a tutto il personale del sito, prima della fermata. Inoltre, verranno installati 9 termo-scanner per agevolare il controllo del personale in entrata e uscita dallo stabilimento e saranno distribuite a tutto il personale impiegato nelle operazioni di fermata mascherine FFP2. Durante le attività di fermata e di riavvio degli impianti saranno attivi i dispositivi di controllo e i sistemi di sicurezza, tra i quali la torcia che si attiverà, in maniera discontinua, per il tempo strettamente necessario a effettuare gli interventi programmati. Saranno preventivamente informati gli Enti competenti, come previsto dal vigente Protocollo Operativo di comunicazione.
SCOPRI DI PIU'L’economia circolare che cresce in molti paesi nel mondo, i prezzi del petrolio, la concorrenza dei polimeri verginidi Marco ArezioLa raccolta differenziata ci restituiva, dopo la trasformazione, una materia prima per la produzione di granuli, macinati e densificati (polimeri post consumo) adatti alla produzione di prodotti plastici, consentendoci di chiudere il cerchio dell’economia circolare. Ora il mondo sta cambiando e dobbiamo ripensare ad un modello produttivo e distributivo che non consideri più la Cina come mercato prevalente e che possa trovare una soluzione verso la competizione con i prezzi delle materie prime vergini. Un tempo c’era la Cina, che fagocitava tutto lo scarto di basso valore delle materie prime in balle provenienti dalla raccolta differenziata mondiale, lasciando, a noi occidentali, l’illusione che avessimo fatto tutto il dovuto per creare un circolo virtuoso sui rifiuti. Raccolta, selezione, impiego dei materiali da post consumo più nobili attraverso la produzione di polimeri, vendita in Cina dello scarto non utilizzato e distribuzione dei polimeri “vendibili” nei mercati remunerativi: questo era il lavoro delle economie del riciclo occidentali. Fino al 2017 la nostra economia circolare ruotava intorno a questo paradigma e ci siamo illusi di poter creare un business verde e remunerativo con questo sistema. Ma quando la Cina ha deciso di non acquistare più le balle di rifiuti plastici, i riciclatori si sono divisi in due categorie: Chi raccoglieva dal mercato il rifiuto post consumo e post industriale, vendendolo come materia prima non lavorata, ha subito compreso la pericolosità commerciale e le conseguenze che questo stop poteva creare nel futuro. Infatti in pochi mesi i mercati occidentali si sono riempiti di rifiuti plastici di scarsa qualità che non avevano più una immediata collocazione.Chi si occupava della lavorazione dei rifiuti da post consumo, acquistando prevalentemente alle aste nazionali il rifiuto sotto forma di plastica mista che proveniva dalle nostre città. Approfittando del blocco delle importazioni Cinesi dei rifiuti plastici hanno iniziato a vendere lo stesso prodotto sotto forma di granulo. Tutti, chi più chi meno, hanno approfittato delle opportunità che questo mercato offriva, sotto forma di importanti contratti in termini di tonnellate vendute mensilmente e pagamenti in anticipo, facendo la felicità degli imprenditori. Pochi hanno pensato che la festa potesse finire e, quindi, non si sono posti il problema di investire per qualificare il prodotto, in quanto oggettivamente, sia l’LDPE, che il PP o PP/PE, miscele composte dagli scarti del post consumo, sono molto sensibili e instabili nella qualità. Inoltre, in alcuni casi, il mercato cinese ricercava granuli di valore molto basso, con l’obbiettivo di comprimere il più possibile il prezzo, in modo da poter dare spazio a tutti gli intermediari commerciali. Una parte dello scarto delle lavorazioni del post consumo veniva “aggiunta” nel granulo per ridurre gli scarti da portare in discarica e abbassare il costo del granulo. Un prodotto così squalificato che prospettive può avere oggi? Forse abbiamo perso tempo prezioso perché oggi si intravedono alcuni problemi non facili da risolvere: Il mercato cinese probabilmente non tornerà indietro, accettando di diventare ancora la pattumiera del mondo, né sotto forma di balle di materie plastiche né di polimeri riciclati da post consumo di bassa qualità. Con il passare degli anni, Pechino aumenterà la quota di raccolta differenziata e avrà a disposizione sempre più materia prima per produrre i polimeri da post consumo che ha sempre comprato in Occidente sotto forma di rifiuto, macinato o granulo. Il governo sta andando verso una politica di economia circolare in tutti i settori sociali, che sia nell’ambito dei rifiuti, delle energie rinnovabili e del controllo dell’inquinamento.I produttori occidentali non hanno investito abbastanza e in tempo per aumentare la qualità dei polimeri da post consumo, attraverso ricette, metodi selettivi, accordi tecnici con i produttori di prodotti del packaging, che riducessero i problemi prestazionali che l’input da genera, puntando solo a minimizzare i costi di produzione, per avere un prezzo sempre più competitivo che svuotasse ogni mese il loro magazzino delle materie prime. Si è considerata quasi esclusivamente l’importanza della quantità e ben poco alla qualità del prodotto. L’economia circolare funziona se le materie plastiche riciclate potranno competere sempre più con quelle vergini nell’uso su larga scala, ma se la qualità rimane molto distante, non c’è prezzo o obbligo nell’uso che ne permetta una grande diffusione. Finché il rating, che il mercato dà ai polimeri realizzati con il materiale da post consumo, rimane a livello “spazzatura”, sarà difficile ipotizzare un vero incremento dei consumi.La variabile del prezzo del greggio, con i ribassi mai visti fino ad oggi che sembrerebbe possano mantenersi nel breve periodo, spinge la competizione economica tra le materie prime vergini e le materie riciclate, portando ad una forte discriminante all’uso di quest’ultima. Nemmeno i polimeri da post consumo di più alta qualità, come per esempio l’HDPE da soffiaggio o estrusione, riuscirebbero a reggere un confronto commerciale con i polimeri vergini, se non ci fosse, in alcuni casi per questioni di marketing, l’obbligo all’uso delle materie prime riciclate.Categoria: notizie - plastica - economia circolare - riciclo - rifiuti - polimeri post consumoVedi maggiori informazioni sul riciclo
SCOPRI DI PIU'Per anni le lastre ondulate in cartone bitumato per i tetti erano destinati alle discariche. Ora si possono riciclaredi Marco ArezioLe lastre ondulate, composte da carta riciclata e bitume, impiegate per la copertura dei tetti o come elemento impermeabile da posizionare sotto le tegole e i coppi, una volta rimosse erano destinate allo smaltimento in discarica a causa del mix di componenti di cui erano composte. Le lastre fibro-bituminose sono nate in Francia nel 1944 per iniziative del Sig. Gaston Gromier che fondò la ditta OFIC S.A. Fino agli anni 60 il prodotto rimase sempre uguale a seguito della forte richiesta di coperture economiche per i tetti nel periodo post bellico. Successivamente il mercato internazionale si interessò alla tipologia di lastra da copertura apprezzandone le facilità di posa, le colorazioni e l’economicità, spingendo quindi l’azienda ad aumentare le tipologie, i colori e i formati. Ma come sono composte le lastre ondulate bituminose? Le materie prime che compongono il prodotto sono essenzialmente quattro: Carta da riciclo Additivi per la carta Bitume stradale 80/100 Pigmenti di superficie La carta da riciclo è normalmente composta da cartone da imballo e giornali non patinati, che creano un mix ideale tra fibre lunghe e corte. Deve essere utilizzata con una percentuale di umidità contenuta per evitare problemi di lavorazione. La carta da riciclo, nella lavorazione, costituirà l’ossatura della lastra ondulata. Il bitume utilizzato è generalmente quello classificato con un grado di penetrazione 80/100, che corrisponde al tipo che si utilizza anche nelle asfaltature stradali. Il bitume applicato a caldo avrà lo scopo di impermeabilizzare la lastra da copertura e proteggere la struttura in carta semirigida. I pigmenti cono colorazioni sintetiche che hanno sia la funzione di attribuire un colore particolare alla lastra in base all’utilizzo che se ne vuole fare, ma anche proteggere il bitume dagli effetti corrosivi dei raggi solari. Come vengono prodotte le lastre ondulate bituminose? La carta da macero (riciclata) viene selezionata seconda la ricetta della cartiera che produce il manufatto ed immessa in un impianto, chiamato pulper, che ha lo scopo, sotto l’effetto rotativo meccanico e dell’acqua, di smembrare il mix di carte, caricate nell’impianto, in modo da amalgamare le fibre che andranno a costituire la struttura portante del prodotto. Una volta terminata questa lavorazione la fibra di carta è pronta per essere conformata in una lastra ondulata. La realizzazione della struttura della lastra può avvenire: Per avvolgimento di più fogli in modo da comporre una lastra multistrato sottile Per pressione di una certa quantità di fibra in uno stampo costituendo una lastra più spessa Dopo la costituzione della lastra piana e umida, questa viene avviata ad un corrugatore attraverso il quale la lastra prenderà la forma ondulata desiderata. I corrugatori, con la lastra adagiata sopra di essi, verranno indirizzati in un forno a tunnel per l’essicazione e il successivo raffreddamento, il cui scopo è renderla semirigida. Il manufatto cartonato asciutto dovrà ora essere impermeabilizzato con il bitume liquido e, questo processo, sarà realizzato in due metodologie operative differenti: Per le lastre multistrato, avendo una densità specifica alta, è necessario provvedere all’impermeabilizzazione attraverso una bitumazione sottovuoto in autoclave. Per la lastra monostrato, l’impermeabilizzazione avverrà attraverso un bagno in una vasca di bitume caldo. L’ultima fase riguarda la colorazione dell’estradosso della lastra, che avverrà a spruzzo o ad immersione, in base alla destinazione finale del manufatto, con la scelta della miscela colorata corretta e dei protettivi anti U.V. necessari. Come si ricicla il prodotto a fine vita? Fino a pochi anni fa le lastre bitumate, una volta rimosse dai tetti per rotture, usura o altri motivi, finivano in discarica in quanto la composizione con materiali simbiotici non ne permetteva il riciclo. Se consideriamo che, solo in Europa, le lastre bitumate prodotte ogni anno si aggirano intorno ai 2 milioni di tonnellate, possiamo immaginare la quantità di rifiuti bituminosi da riciclare. Oggi il processo di riciclo è possibile in quanto, dopo diversi tests, si è identificato il canale più consono per dare una seconda vita a questo prodotto. Infatti, si è visto che il settore dei bitumi stradali, che già accoglie nelle sue ricette il macinato riciclato delle guaine bituminose a rotoli e degli pneumatici, ha trovato il giusto equilibrio per utilizzare anche le lastre ondulate bituminose. Considerando che mediamente una lastra da copertura contiene circa il 60% in peso di bitume stradale, ed essendo questo perfettamente compatibile con quello usato normalmente per gli asfalti e che la struttura di base formata dalla carta, se aggiunta nelle corrette percentuali, l’utilizzo del macinato da lastre bitumate da copertura non va ad inficiare le ricette finali dei bitumi stradali. Le lastre quindi vengono macinate in mulini appositi, asportando gli eventuali residui di chiodi per l’ancoraggio ancora presenti, creando un macinato di granulometrie differenti a seconda delle richieste del cliente. Con il macinato recuperato, i produttori di asfalti stradali possono realizzare miscele che rispettano la filosofia dell’economia circolare potendo impiegare prodotti riciclati, risparmiare l’uso di una parte di bitume naturale, ridurre i rifiuti destinati alla discarica e migliorare l’impatto ambientale.Categoria: notizie - plastica - economia circolare - carta riciclata - lastre bitumate - lastre fibrobituminose
SCOPRI DI PIU'I musicisti, la musica e la filantropia musicale nella storia recentedi Marco ArezioPossiamo essere giovani o vecchi, di destra o di sinistra, filo musicali o anarchici dei suoni, classici o rock, freddi o partecipativi, ottimisti o pessimisti ma, se sentiamo la parola Woodstock credo che ci siano poche persone che chiedano: cos’è? Perché l’impegno dei musicisti verso le cause sociali iniziò proprio da quel concerto, nell’Agosto del 1969, nella cittadina Americana di Bethel dove si riunirono per tre giorni circa 400.00 giovani, c’è chi dice fino a 1 milione, richiamati da 32 musicisti che si sarebbero esibiti a rotazione. Erano gli idoli delle nuove generazioni: Joan Beaz, Santana, The Who, Neil Young, Grateful Dead, Jimi Hendrix solo per citarne alcuni che, attraverso un concerto oceanico, volevano protestare contro la segregazione razziale, la guerra in Vietnam e contro il sistema capitalista Americano. Woodstock fu certamente uno spartiacque storico, ma anche sociale dove nulla, dal punto di vista della comunicazione musicale, fu come prima e dove la gente si divise tra chi era pro o contro il sistema Woodstock. Chi vedeva in questa mobilitazione il mezzo per rompere i rigidi schemi morali dell’epoca, utilizzando un nuovo mezzo di comunicazione musicale, facendo trionfare apertamente la cultura Hippy, nonostante qualche eccesso, e dall’altra parte chi vedeva in questi rumorosi assembramenti di giovani un decadimento morale della società. Ma ormai il seme era stato gettato in un terreno fertile, così il 13 Luglio del 1985 venne organizzato un altro evento mondiale, il Live Aid, con la creazione di due palchi, uno a Philadelphia e l’altro a Londra, collegati in diretta mondiale attraverso la televisione. Era l’occasione per raccogliere fondi a favore dell’Etiopia che fù colpita da una tremenda carestia. La qualità degli artisti che si esibirono fu di grandissimo livello: i Queen, con Freddy Mercury che ipnotizò la platea, gli U2, David Bowie, i Led Zeppelin, Tina Turner, Madonna, Bob Dylan, i Rolling Stones e tanti altri. Il concerto fu visto in televisione da oltre un miliardo e mezzo di persone, raccogliendo 70 milioni di dollari, dimostrando che la musica era diventata a tutti gli effetti un fenomeno mediatico che poteva muovere le coscienze e avere un peso sociale da tenere in considerazione. Anche in questo caso ci furono polemiche, tra chi ne apprezzava la nuova forza dirompente di una espressione che veniva dalla gente, e chi vedeva in queste manifestazioni una vetrina narcisista degli artisti. Polemiche rinfocolate dopo che una parte dei fondi destinati all’Etiopia furono rubati da Mengistu Haile Mariam. Il modello Live Aid si ripropose in altri concerti tra il 1996 e il 2001 per la causa dell’indipendenza del Tibet. Le problematiche sociali nel corso degli anni e i concerti benefici si moltiplicarono, ricordiamo il concerto nel 2001 “a Tribute to Heros” che voleva ricordare i caduti delle Torri Gemelle a New York, dove i cantanti si esibirono su un palco spoglio, adornato solo di candele in ricordo delle vittime. Possiamo ricordare anche il concerto organizzato da George Clooney “Hope for Haiti” a seguito del devastante terremoto che colpì l’isola e trasmesso da Mtv. Non solo il Rock scorreva nelle vene dei cantanti che negli anni si sono trasformati in filantropi musicali, ma si cimentarono anche personaggi di primissimo livello come Pavarotti, che organizzò vari “Pavarotti and Friends”. Pavarotti, nel corso degli anni riunì molti personaggi famosi per diverse iniziative: il sostegno ai bambini bosniaci, la lotta alla talassemia, alle popolazioni Afghane e molte altre. Oggi, dove il problema dei cambiamenti climatici è di grande attualità, i musicisti vogliono testimoniare la loro preoccupazione e il loro sostegno alla causa ambientalista. Per esempio i Coldplay hanno deciso di interrompere tutti i concerti dal vivo finchè non si potesse trovare una soluzione per suonare ad impatto 0. Altri cantanti come Michael Stipe, ex R.E.M, ha diffuso in rete una nuova canzone “Drive To The Ocean” i cui proventi andranno all’associazione “Pathway To Paris”, associazione che riunisce diversi artisti che si battono per diffondere l’accordo sulla riduzione delle emissioni di CO2 deciso a Parigi. Non è possibile citare tutte le iniziative per l’ambiente che i musicisti stanno sostenendo oggi, ed è per questa impossibilità data dai numeri che fa capire il movimento musicale è sempre in prima linea a fianco delle cause che stanno a cuore alla gente.Vedi maggiori informazioni
SCOPRI DI PIU'Un collaudato e pericoloso modo di gestire i collaboratori in modo da non essere coinvolto in critiche o colpedi Marco ArezioAbbiamo parlato, in alcuni precedenti articoli, delle diverse strategie manageriali sulla gestione delle attività dei lavoratori del proprio team, finalizzate al raggiungimento degli obbiettivi, assegnati ad ogni manager, da parte delle aziende. In particolare si è sviscerata la tematica del “Divide et Impera” che spinge alla massima competizione tra le risorse umane, lasciando che vi siano momenti di attrito e di lotta intestina, per alzare sempre più l’asticella della tensione professionale e facilitando lo scorrimento di un’adrenalina costante. La posizione del manager che gestisce da fuori la lotta, i vantaggi o gli svantaggi di questa pratica, sono elementi da prendere con estrema attenzione per i risvolti che questo approccio può ingenerare. Il “divide et impera” potrebbe portare ad un vantaggio negli obbiettivi aziendali, in particolari condizioni e con un’attenta analisi interna del team da parte del manager, ma non è, ovviamente, la sola teoria passiva che un manager può introdurre. Infatti, può anche emergere nelle aziende un’altra diffusa pratica di gestione dei lavoratori, che è quella di un responsabile di team o di più teams che “usa” i collaboratori per proteggere la propria posizione apicale. Sono managers complessi, dal carattere sfuggente, dal modo di ragionare non sempre lineare, che fanno della manipolazione della forza lavoro un mezzo per consolidare la propria posizione, assorbendo dal lavoro quotidiano i vantaggi di tale gestione, sia che si tratti di successi, quindi le sua vittorie, che di insuccessi della squadra, quindi le sconfitte e l’incapacità dei singoli. Il principio del loro operare è quello di coinvolgere i collaboratori nelle attività quotidiane, trasferirgli il concetto di responsabilità del lavoro e l’entusiasmo degli obbiettivi, con la capacità di far nascere nelle persone quel senso di dedizione alla causa e al sacrificio. Elogia, spinge, rimprovera con garbo, assegna compiti chiedendone la condivisione al gruppo o ai singoli, fa squadra e mantiene alta la competizione, crea una sorta di dipendenza dei collaboratori nei suoi confronti, una forma sottile di gratitudine perpetua verso sé stesso, una sensazione di debito mai estinguibile verso il capo, senza mai, in ogni caso, entrare nelle scelte e nelle decisioni in modo diretto. Finge una neutralità costruttiva, una forma di francescana di aiuto alla crescita dei collaboratori, uno modo di spingerli a migliorarsi professionalmente, attraverso l’assunzione delle proprie responsabilità nei confronti degli obbiettivi e dell’azienda. Crea addirittura una forma astratta di riconoscenza da parte dei collaboratori, che vedono la sua figura come un tutore quasi disinteressato alla sua posizione apicale, che si adopera a far crescere i managers del futuro, che condivide la propria intelligenza per migliorare la capacità deduttiva e decisionale dei collaboratori. Molto spesso, però, succede che il manager non vuole sporcarsi le mani con decisioni spinose, rischiose o scomode, che, tuttavia, il suo ruolo gli chiederebbe di assumersi personalmente, anche a tutela del proprio team. È astuto nel capire che la sua posizione dipende dal buon risultato del lavoro dei suoi collaboratori, di cui si assumerà i meriti nel momento in cui la squadra raggiunge o supera gli obbiettivi aziendali, ma che in caso di errori o insuccesso negli obbiettivi, deve dimostrare di saper intervenire per sanare la situazione in modo che sia palese, a tutti, che l’evento negativo non è di sua responsabilità. Questo suo atteggiamento costruisce una comunicazione chiara verso i suoi superiori, circa i suoi sforzi nel cercare il colpevole o i colpevoli dell’insuccesso, dimostrando che la sua visione della gestione o della problematica sarebbe stata diversa, e che all’interno del team potevano esserci delle “mele marce” da isolare. Un comportamento adatto a galleggiare sui problemi senza venire travolto, avendo agito in modo di attribuire le colpe a chi si è esposto tra suoi collaboratori, questi, ingenuamente pensando che la squadra nel suo complesso, capo compreso, condividesse le scelte fatte. Il collaboratore che fino qui ha lavorato con soddisfazione nel portare il proprio apporto all’azienda, vivendo le piccole luci della ribalta, godendosi le piccole invidie dei colleghi per uno speciale rapporto professionale con il manager da cui dipende, aveva l’autoconvinzione che il gruppo, incluso il suo referente, aveva ragionato e deciso insieme le migliori strade da seguire. Invece si troverà isolato, nella colpevolizzazione di essersi assunto decisioni in maniera autonoma, senza l’avvallo esplicito e chiaramente comunicato del proprio superiore, con quello che probabilmente era la routine, diventa l’eccezione di un comportamento mai autorizzato. Ciò che era chiaro a tutti, a voce, non lo è più per il superiore e di conseguenza probabilmente anche per i suoi colleghi, che per ovvie ragioni potrebbero non prendere le su posizioni difensive o addirittura negare l’evidenza per convenienza. Riaffiorano le vecchie ruggini, le rivalse sopite, le nuove alleanze nel team, l’ambiente si fa caldo e spinoso al punto che sono possibili delle rese dei conti interne. Ogni manager che adotta questa politica difensiva per la propria posizione, in maniera un po' differente in base all’azienda, al mercato e al suo carattere, tenderà a peggiorare la condizione dei collaboratori a cui ha deciso di addossare le colpe di una situazione negativa, perché salvarli vorrebbe dire che, in qualche modo, avvallare ciò che loro hanno fatto e che avrebbe, invece, dovuto fare lui al posto loro.
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