Se i Termovalorizzatori nascono per utilizzare correttamente l’End of Waste, le cementerie lasciano molti dubbi. Nell’ottica dell’economia circolare, lo scarto dei prodotti del riciclo plastico, che per sua composizione chimica non può essere utilizzato, ha una valenza termica come combustibile. Ma se l’End of Waste non può essere riciclato è perché è composto da un mix di scarti plastici che, se bruciati nei forni, determinano l’emissione di sostanze tossiche che non devono essere immesse in atmosfera. Per questo sono nati i termovalorizzatori. Gli impianti di termovalorizzazione sono progettati, costruiti e destinati alla combustione dell’End of Waste, tenendo in considerazione il processo chimico di trasformazione delle varie plastiche sotto l’effetto del calore. Questo processo comporta la produzione di fumi nei quali sono contenute sostanze pericolose per l’uomo e l’ambiente che, un impianto nato per questo lavoro, gestisce in modo corretto, con l’obbiettivo di abbattere le sostanze dannose. E’ una pratica comune però, destinare una parte dell’End of Waste anche agli impianti di produzione del cemento, che lo utilizza come comburente per i propri forni a prezzi contenuti, ma attraverso impianti che non sono stati progettati specificatamente per lo smaltimento dei rifiuti. Ma cos’è l’End of Waste? Nelle corrette politiche di gestione dei rifiuti urbani ci sono due categorie di scarti che vengono raccolti e trattati in modo diverso e con scopi diversi: I rifiuti organici, che produciamo quotidianamente nell’ambito domestico, che vengono conferiti nei centri di raccolta dei rifiuti differenziati. Questi prodotti vengono trattati per la produzione di biogas, fertilizzante, anidride carbonica per uso anche alimentare ed energia elettrica. I rifiuti urbani, sotto forma di plastiche miste, che vengono selezionati per tipologia di plastica e avviati al riciclo trasformandoli in scaglie, densificati e polimeri. Nell’ambito della selezione delle frazioni di plastica emergono alcune famiglie, le cui caratteristiche non si prestano ad una selezione meccanica come, per esempio, i poli accoppiati, plastiche formate da famiglie di polimeri differenti tra loro ed incompatibili. Quando una plastica, alla fine del suo ciclo non è recuperabile in modo meccanico, può assumere una importante valenza termica creando un materiale comburente, di caratteristiche caloriche decisamente apprezzabili, che aiuta, attraverso il suo utilizzo, a continuare il cammino dell’economia circolare. Infatti, oltre a non mandare in discarica questa frazione di plastiche miste, che in termini di volume annuo è decisamente importante, possiamo risparmiare l’utilizzo di risorse naturali derivanti dal petrolio. Con l’End of Waste si alimentano oggi principalmente centrali elettriche e cementifici. L’utilizzo di questo rifiuto nelle centrali elettriche ha ridotto la dipendenza anche verso il carbone, carburante fossile con un tenore di inquinamento molto elevato e responsabile di problemi legati alla salute dei cittadini che vivono nelle vicinanze delle centrali. La produzione di energia elettrica, attraverso l’End of Waste, ha permesso di calibrare la progettazione degli impianti rispetto al prodotto che serve come combustibile, creando un’alta efficienza ecologica rispetto ad altri sistemi. Nel nord Europa la produzione di energia attraverso la combustione di rifiuti plastici non riciclabili, risulta un buon compromesso tra risultato tecnico e ambientale. Il secondo ambito di utilizzo del carburante derivato dall’ End of Waste riguarda l’uso nelle cementerie, che lo impiegano per alimentare i forni per la produzione di clinker. Secondo uno studio fatto Agostino di Ciaula, gli impianti per la produzione di clinker/cemento non sarebbero adeguati, dal punto sanitario, ad impiegare questo tipo di rifiuto plastico. In base a queste ricerche, l’impiego dell’End of Waste nei cementifici, in sostituzione di percentuali variabili di combustibili fossili, causa la produzione e l’emissione di metalli pesanti, tossici per l’ambiente e dannosi per la salute umana. Queste sostanze quando emesse nell’ambiente, sono in grado di determinare un aumento del rischio sanitario per i residenti a causa della loro non biodegradabilità (persistenza nell’ambiente), della capacità di trasferirsi con la catena alimentare e di accumularsi progressivamente in tessuti biologici (vegetali, animali, umani). È stato dimostrato che, per alcuni metalli pesanti (soprattutto quelli dotati di maggiore volatilità), il fattore di trasferimento di queste sostanze dal combustibile derivato da rifiuti alle emissioni dell’impianto, è di gran lunga maggiore nel caso dei cementifici, quando confrontati con gli inceneritori classici. Questo valore è significativamente superiore a quello rilevabile in seguito all’utilizzo di End of Waste in impianti progettati per questo scopo (Termovalorizzatori) e, negli stessi cementifici, in misura maggiore rispetto al solo utilizzo di combustibili fossili. Questo impiego è in grado di incrementare le emissioni nell’ambiente di diossine, PCB e altri composti tossici clorurati persistenti con conseguenze negative sulla salute umana. Fattori di trasferimento considerevolmente maggiori per i cementifici sono anche evidenti nel caso del cadmio, sostanza riconosciuta come cancerogeno certo (emissioni percentuali 3.7 volte maggiori nel caso dei cementifici) e del piombo (fattore di trasferimento percentuale 203 volte maggiore nel caso dei cementifici). Nonostante le misure tecnologiche di limitazione delle emissioni adottate dai cementifici, considerato l’elevato volume di fumi emessi da tali impianti, la quantità totale di Hg che raggiungerà l’ambiente sarà, comunque, tale da incrementare in maniera significativa il rischio sanitario dei residenti nei territori limitrofi. Limitando l’analisi al solo mercurio, è stato calcolato che ogni anno in Europa nascono oltre due milioni di bambini con livelli di mercurio oltre il limite considerato “di sicurezza” dall’OMS. Pur tralasciando l’incremento del rischio sanitario da emissione di metalli pesanti cancerogeni presenti nell’End of Waste (arsenico, cadmio, cromo, nichel), problemi altrettanto rilevanti derivano dalla presenza, concessa nel rifiuto stesso, di quantità rilevanti di piombo. Il fattore di trasferimento del piombo, dall’End of Waste alle emissioni, è circa 203 volte maggiore nei cementifici, rispetto agli inceneritori tradizionali, e i valori emissivi sono resi, nel caso dei cementifici, ancora più problematici da un volume medio di fumi emessi, circa cinque volte maggiore nei cementifici rispetto agli inceneritori classici. Anche per il piombo, come per gli altri metalli pesanti, il rispetto dei limiti di legge non è in grado di tutelare adeguatamente l’età pediatrica. L’esposizione a piombo, infatti, come quella da mercurio, inizia durante la vita fetale (in utero) e comporta un accumulo progressivo e irreversibile nell’organismo. Per limitarsi all’assunzione di piombo attraverso l’acqua potabile, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’assunzione di acqua con concentrazioni di piombo pari a soli 5 μg/L comporta un apporto totale di piombo che varia da 3.8 μg/giorno in età pediatrica a 10 μg/giorno per un adulto. Un altro problema riscontrato sono le emissioni di diossina, che anche se contenute all’1% è pur sempre una quantità da considerarsi ad alto rischio per la formazione e la conseguente emissione in atmosfera di diossine, (delle quali il cloro è precursore) e altri composti tossici clorurati, da parte dei cementifici che impieghino la co-combustione dell’End of Waste in sostituzione dei combustibili fossili. Le alte temperature presenti in alcuni punti del ciclo produttivo di questi impianti favoriscono la disgregazione delle diossine. Tuttavia, evidenze scientifiche mostrano con chiarezza come, sebbene le molecole di diossina abbiano un punto di rottura del loro legame a temperature superiori a 850°C, durante le fasi di raffreddamento, (nella parte finale del ciclo produttivo la temperatura scende sino a circa 300°C) esse si riaggregano e si riformano, comparendo di conseguenza nelle emissioni. Rapporti SINTEF e pubblicazioni scientifiche internazionali, documentano la produzione di diossine e di naftaleni policlorurati da parte di cementifici con pratiche di co-combustione e, un recente studio, ha dimostrato quantità considerevoli di diossine nella polvere domestica di case localizzate nei territori limitrofi a cementifici con co-combustione di rifiuti. La Convenzione di Stoccolma richiede la messa in atto di tutte le misure possibili utili a ridurre o eliminare il rilascio nell’ambiente di composti organici clorurati (POPs) e, i cementifici con co-combustione, di rifiuti sono esplicitamente menzionati in essa. Inoltre, anche quando le emissioni di diossine siano quantitativamente contenute, l’utilizzo di combustibile derivato da rifiuti plastici, può generare la produzione e l’emissione di ingenti quantità di PCB (concentrazioni migliaia di volte superiori), composti simili alle diossine in termini di pericolosità ambientale e sanitaria. Le diossine sono composti non biodegradabili, persistenti nell’ambiente con una lunga emivita (che per alcuni congeneri arriva a superare il secolo), trasmissibili con la catena alimentare e, soprattutto, bio-accumulabili. La Environmental Protection Agency (USA EPA) ha recentemente ricalcolato il livello giornaliero di esposizione a diossine considerato non a rischio per l’organismo umano, che è pari a 0.7pg (0.0007ng) di diossine per Kg di peso corporeo.
SCOPRI DI PIU'I rifiuti che produciamo ogni giorno hanno un valore e in virtù di questo che dovrebbero essere ceduti Sembra che il ritiro del rifiuto plastico, del vetro, della carta, dei metalli e della frazione umida dalle nostre case sia un servizio gentile che i comuni organizzano per farci un favore, quello di liberare quotidianamente le nostre case dai rifiuti. Ma è proprio così? Incominciamo a dire che gratis oggi, probabilmente, non si fanno più nemmeno i favori, ma quello che i cittadini hanno in testa, in relazione al servizio di raccolta dei rifiuti, è un concetto non del tutto corretto. Non si vede spesso, nel mercato reale, una cessione di un bene senza un corrispettivo economico pagato da parte dell'acquirente e, probabilmente, ancora meno si vedono operazioni in cui il venditore debba pagare l'acquirente per cedere il suo prodotto. Nel mondo dei rifiuti capita invece con una certa frequenza e i motivi nascono da una visione distorta da parte della gente del concetto di rifiuto di nostra proprietà. Già la parola rifiuto è assimilato a tutti questi prodotti che, nelle nostre case o aziende, finiscono il ciclo di vita che gli abbiamo attribuito, diventando un impellente problema di spazio e di decoro. Con questo concetto, non riuscendo a intravedere nessun valore al prodotto a fine vita, siamo disposti a pagare purché venga portato via dal nostro ambito di vita. Le attività imprenditoriali che si occupano di raccolta, trattamento e smaltimento dei rifiuti ringraziano per la golosa opportunità offerta dai cittadini (sebbene le logiche delle aste delle materie prime a volte raffreddano questi entusiasmi) e i comuni, che hanno il compito di raccogliere i rifiuti, coprono i costi del servizio, lontani dalle logiche di mercato, attraverso i nostri soldi. In realtà, con questo sistema, il cittadino rimane beffato 3 volte: cede il rifiuto di sua proprietà senza ricavarne alcun vantaggio economico paga per la cessione e il ritiro del rifiuto presso la propria abitazione ricompra un bene che probabilmente è fatto con una quota dei rifiuti che ha ceduto in modo oneroso Molti anni fa quando i rifiuti domestici venivano prevalentemente sotterrati in discariche o bruciati passivamente, il contributo economico al ritiro e smaltimento poteva avere un senso logico in quanto, il comune, attraverso società specializzate, offriva un servizio al cittadino non remunerativo. Oggi, i rifiuti hanno un valore intrinseco in quanto producono, attraverso la loro lavorazione, sottoprodotti con cui si crea un nuovo valore. Il vetro, la carta, la plastica la frazione umida delle nostre cucine creano un circolo virtuoso espresso in materie prime seconde o in energia che vengono offerte nuovamente al mercato in una normale attività commerciale. Quindi può facilmente capitare che il rifiuto che noi abbiamo, forse ingenuamente pagato per liberarcene, lo ripagheremo una seconda volta quando andremo a comprare un flacone di detersivo fatto in plastica riciclata o accenderemo la luce a casa nostra, utilizzando l'energia realizzata con la frazione umida delle nostre cucine. In alcune parti del mondo si comincia a pensare che questo approccio alla cessione onerosa, da parte dei cittadini dei propri rifiuti, sia una cosa che ha poco senso e che la sua inversione potrebbe creare un'economia sociale importante e un concreto aiuto alla salvaguardia dell'ambiente. Ma come è possibile cambiare questa mentalità e quali vantaggi porterebbe? Vediamo alcuni punti: Si deve accompagnare il cittadino ad un cambiamento culturale radicale, spostando il concetto di rifiuto da un onere ad una risorsa per sé e per la propria famiglia. Acquistando un valore, il rifiuto domestico permette di creare un ulteriore introito al bilancio famigliare riducendo le tasse a suo carico, come già succede già in alcuni paesi, attenzionando il cittadino al corretto approccio alla raccolta differenziata. Si creerebbe una sostanziale riduzione dei rifiuti dispersi nell'ambiente in quanto si potrebbe generare una nuova economia che valorizza la raccolta e il riciclo. I maggiori oneri che le industrie del riciclo e i comuni saranno costretti a sostenere potrebbero essere compensati, da un aumento della quota di rifiuti lavorabili immessi sul mercato, da una riduzione degli oneri derivanti dalle bonifiche ambientali o dalle conseguenze economiche in relazione all'aumento del tasso di inquinamento circolare e dalla dipendenza dalle materie prime vergini. Pensateci, potrebbe fare bene a tutti.
SCOPRI DI PIU'Dopo auto, moto e treni elettrici qualcosa si muove nel campo dell’aereonautica – ecco l’aereo elettrico – L’aereo elettrico potrebbe essere la risposta al crescente movimento “FlightShame” (vergogna di volare) che cerca strade alternative all’aereo per gli spostamenti di piccolo e medio raggio. Non c’è dubbio che il trasporto aereo è il maggior responsabile delle emissioni di CO2 nel campo della mobilità e, il crescente flusso di passeggeri che non vede tregua negli ultimi anni, non fa ben sperare per la qualità dell’aria. Dobbiamo però anche riconoscere che dal 1990 la percentuale di CO2 per passeggero trasportato è diminuita del 60% nonostante un incremento di passeggeri pari al 330%, ma nel complesso delle emissioni, l’incremento è stato del 90%. . A fronte di una situazione ambientale compromessa e a causa del timore che le compagnie aeree possano perdere passeggeri, venendo etichettate come inquinatori seriali, sono allo studio soluzioni che possano rendere il trasporto aereo meno dipendente dai carburanti fossili e più dalle energie rinnovabili. Un precursore di queste ricerche è la compagnia aerea Easyjet, che ha dichiarato di stare lavorando ad un progetto per poter volare, entro 10 anni, con aerei elettrici. Per poter mettere in volo un aereo spinto da energia rinnovabile bisogna partire dalla sua progettazione, ex novo, in quanto il peso e l’aereodinamica sono elementi da tenere in gran considerazione. Quindi, largo spazio ai nuovi materiali, come il carbonio, e alle nuove geometrie alari che dovranno essere sempre meno impattanti all’attrito dell’aria. Come ogni nuovo progetto si faranno una serie di passi che permetteranno di raggiungere il traguardo desiderato risolvendo ad una ad una le problematiche oggi esistenti. Infatti il primo obbiettivo sarà quello di poter usare aerei elettrici nelle tratte brevi, fino a 500 Km., per poi puntare a tratte più lunghe quando la tecnologia delle batterie permetterà una riserva di energia maggiore. Nel frattempo Airbus sta lavorando al progetto di aerei ibridi, che possano anche utilizzare bio carburanti, una risposta probabilmente più immediata sulle lunghe tratte agli aerei elettrici. Inoltre, ha stretto un’alleanza con la start-up Americana Wright Elettric, per la costruzione di un motore per un un aereo a 9 posti totalmente elettrico, dopo aver sperimentato alcuni voli con un biposto. Anche in Canada si stanno facendo voli test su brevi percorsi, con aerei elettrici, che possano, in un prossimo futuro, collegare le isole vicino alla costa o portare i turisti nelle località sciistiche. Il primo volo sperimentale ha percorso circa 160 chilometri (100 miglia) con un motore alimentato a batterie al litio, senza creare nessun tipo di problema, nel silenzio assoluto e senza danneggiare l’ambiente.
SCOPRI DI PIU'In Italia ci sono ancora attive circa 2000 corse giornaliere di treni alimentati a gasolio con un impatto sull’ambiente del tutto negativo. Ed è da questo punto che la decarbonizzazione ferroviaria muoverà i primi passi attraverso la sostituzione di questi locomotori con nuovi mezzi alimentati a idrogeno. Il primo progetto verrà realizzato in Valcamonica, in provincia di Brescia, dove sulla tratta Brescia-Edolo, a partire dal 2026, vedremo viaggiare i primi 6 treni della Alstrom a trazione verde, utilizzando l’idrogeno. Il progetto prevede inoltre la costruzione di centrali locali per la produzione, in un primo tempo di idrogeno blu, che alimenterà le locomotive, per poi passare all’idrogeno verde una volta costruite tutte le infrastrutture. L’idrogeno blu, creato attraverso l’uso dell’energia derivante dal gas naturale e dal biometano, emetterà CO2 ma sarà totalmente recuperata e stoccata, evitando la dispersione nell’aria. Terminato il progetto, con l’arrivo di altri 8 treni e la costruzione di due centrali per la produzione, stoccaggio e rifornimento dell’idrogeno verde, si sarà realizzata la prima linea di trasporto ferroviario totalmente green in Italia. I treni a idrogeno saranno solo il primo tassello di un progetto ad impatto zero nel mondo del trasporto pubblico infatti è previsto di equipaggiare anche un certo numero di bus del trasporto locale che viaggiano in Valcamonica con l’idrogeno verde.
SCOPRI DI PIU'Snetor, il gruppo francese attivo nella distribuzione mondiale delle materie plastiche, ha recentemente siglato una partnership con l'azienda Italiana Tecnopol, attiva nella distribuzione, commercio e compounding di polimeri termoplastici, con sede a Torino, specializzata tra gli altri, nel campo medicale, automobilistico, dei mobili e dell'imballaggio. Tecnopol, forte di un fatturato di 60 milioni di euro nel 2019, ha siglato un accordo con Snetor, il quale prevede l'acquisizione fino al 70% delle attività di distribuzione di Tecnopol dando vita al gruppo Tecnopol Snetor. Il restante 30% del capitale resterà nella mani dei precedenti proprietari Tecnopol (Giancarlo Rizzi e Alberto Borio) che continueranno a ricoprire i ruoli di Amministratori Delegati e di management della realtà Italiana per dare continuità e crescita all'azienda. Inoltre, l'accordo prevede di unire le attività di Snetor Iberica e Tecnopol creando una nuova entità distribuiva sul mercato Spagnolo controllata al 60% da Snetor e al 40% da Tecnopol. L'attività di compounding di Tecnopol, tramite Omikron, rimane fuori dall'accordo tra le società ma Tecnopol Snetor si occuperà della distribuzione dei suoi prodotti. Snetor, società con oltre 35 anni di storia e più di un miliardo di euro di fatturato annuo, presente nel continente Americano, Europeo e Africano con 19 sedi proprie, rafforzerà attraverso questa partnership la presenza distributiva in Europa, entrando direttamente sul mercato Italiano, secondo di importanza in Europa. Vuoi pubblicare un articolo gratuitamente? Invia il testo e una foto qui.
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