Nell’ottica dell’economia circolare sono state identificate alcune tipologie di fanghi di depurazione utilizzabili, ma lo smaltimento rimane complesso di Marco ArezioSembra una lotta già vista in altri settori tra i prodotti eco compatibili e quelli di derivazione industriale che tanto ha interessato la popolazione e un po’ meno la politica. Come per la plastica, il vetro, il legno, la carta e metalli, esiste una competizione sotto traccia tra prodotto “vergine” e prodotto da riuso. Il fango di depurazione è un altro esempio della complicata normativa che regge il mercato dei rifiuti rispetto alle esigenze sul territorio degli operatori del settore. Esistono, in alcune aree, divieti assoluti nell’utilizzo di questi fanghi trattati e libertà di utilizzo in altre, complice anche una normativa che in alcuni paesi è ancora del secolo scorso. Ma cosa è il fango da depurazione? Le cosiddette acque nere delle reti fognarie che confluiscono nei depuratori cittadini, vengono trattate meccanicamente, biologicamente e chimicamente in modo da rendere il fluido di risulta adatto alla reimmissione in natura senza creare alterazioni nell’ecosistema. Queste operazioni creano uno scarto di lavorazione che è composto da un fango contenente parti organiche e inorganiche in gran parte biodegradabili. I fanghi si dividono in fanghi primari e secondari. I primari sono costituiti prevalentemente in: Organici, quali la cellulosa gli zuccheri i lipidi e le proteine, che sono facilmente biodegradabili Inorganici, quali la sabbia gli ossidi metallici e i carbonati Organici non facilmente biodegradabili, come le fibre le gomme e semi I fanghi secondari sono costituiti prevalentemente da: Solidi sospesi che non sono stati trattenuti dalla sedimentazione primaria Solidi prodotti direttamente dall’impianto, quali sostanze che non vengono attaccate dai batteri e solidi disciolti biodegradabili che vengono attaccate dai batteri. Senza entrare nello specifico delle differenze chimiche dei fanghi primari e secondari e sul loro diverso trattamento in un impianto di depurazione possiamo dire che i fanghi secondari sono i più ricchi di nutrienti, come l’azoto e il fosforo rispetto ai primari, quindi più adatti ad un uso in agricoltura. Quelli primari, invece, hanno un potere calorifico maggiore dei secondari biologici e quindi più indicati allo smaltimento per incenerimento. In realtà, per le difficoltà che le normative ambientali stanno ponendo, una consistente frazione di fanghi, che potrebbero essere utilizzati in agricoltura, si sta accumulando nei depositi in quanto non trovano uno sbocco commerciale. Se consideriamo che la produzione dei fanghi da depurazione non si ferma mai, in quanto le acque nere confluiscono ogni giorno nei depuratori, l’enigma di dove collocarli aumenta sempre più ogni giorno. Il problema non è solo per gli impianti di depurazione, ma coinvolge anche gli agricoltori che sono costretti ad usare concimi chimici quando la natura ci dà le stesse sostanze che necessita la terra sotto forma di liquami trattati. I metodi per affrontare questa emergenza vede la reazione degli operatori divisi tra passivi e attivi. Per passivi intendiamo le soluzioni tecniche che mirano, attraverso metodi di gestione del ciclo di depurazione, alla riduzione della quantità di fango di risulta. Tra quelli attivi troviamo proposte per trasformare il fango in “gesso di defecazione” ottenendo un prodotto che non è più da considerare rifiuto, ma come un additivo che può essere utilizzato in agricoltura come correttivo delle ricette di concimazione. Un altro progetto è la “carbonizzazione accelerata del fango” attraverso la permanenza dei fanghi in un’autoclave ad alta pressione (18 bar) e ad alta temperatura (190°). Così facendo si genera una trasformazione dei fanghi in un prodotto definito “biocarbone”. Una ulteriore linea di smaltimento è quella di mischiare i fanghi di depurazione, attraverso un impianto di iniezione dei fanghi disidratati, ai processi di combustione dei rifiuti, creando una co-combustione che utilizzerebbe una percentuale di fanghi tra il 7 e 8% rispetto ai rifiuti immessi.Categoria: notizie - fanghi - economia circolare - riciclo - rifiuti - fanghi di depurazioneApprofondisci l'argomento
SCOPRI DI PIU'La pesca a strascico è un killer per la flora e la fauna dei nostri maridi Marco ArezioI problemi del mare e degli oceani non sono solo le isole galleggianti di rifiuti plastici che si decompongono in microplastiche, entrando nella nostra catena alimentare. Ci sono altri sistemi di distruzione sistematica dell’habitat dei pesci e delle piante acquatiche, con la produzione di quantità impressionanti di CO2 che si riversano in atmosfera. E’ la pesca a strascico, che è una delle più catastrofiche invenzioni dell’uomo per distruggere i mari e gli oceani, colpendo i fondali, le tane dei pesci, favorendo la pesca indiscriminata di specie protette o non commestibili e il rilascio in atmosfera di tonnellate di CO2, che in parte viene anche mischiata nell’acqua creando acidità dei mari. E’ noto infatti che i mari e gli oceani assorbono un terzo dei gas serra immessi in atmosfera, facendo depositare il carbonio nei sedimenti marini, che sono degli enormi stoccaggi per la terra. Stiamo parlando di circa un miliardo di tonnellate di CO2 annue, una quantità paragonabile alla somma delle emissioni del traffico aereo mondiale, che la pesca a strascico rimuove dai fondali, facendoli riemergere a danno per la nostra salute. Ma come avviene questo tipo di pesca? La pesca a strascico comporta la stesura di una rete a sacco molto grande, trainata da due pescherecci, con una parte della rete piombata in modo che possa lavorare sul fondo. Lo spostamento di trascinamento simultaneo, comporta un movimento a strascico che causa l’estirpazione di tutto ciò che incontra, distruggendo in modo indiscriminato i fondali e raccogliendo qualsiasi cosa. Nella rete rimangono pesci commestibili e non commestibili, specie protette, coralli, specie in estinzione come lo squalo mako, lo smeriglio, la ventresca e le tartarughe, che vengono tirate a bordo, molte volte già mortalmente ferite nel tentativo di fuggire. Inoltre la tecnica della pesca a strascico comporta spesso la rottura delle reti che sono fatte da fili di nylon, materiale non degradabile, che finiscono trasportate dalle correnti insieme agli altri rifiuti in plastica e con lo stesso destino, cioè finire sulla nostra tavola attraverso i pesci che ci mangiamo. Le reti abbandonate sono i peggiori nemici per i delfini, le tartarughe, i cuccioli dei grandi pesci, che vi finiscono dentro restando impigliati, con la conseguenza di una morte quasi certa. Secondo i dati della Fao, nei mari ci sono circa 640.000 tonnellate di reti in plastica abbandonate, costituendo il 10% dei rifiuti plastici che galleggiano o si spostano a media profondità sospinte dalle correnti. Ci sono alcuni paesi che hanno regolamentato la pesca a strascico in modo da vietare che le reti raschino il fondo, distruggendo tutto, ma permettendo questa tecnica a medie profondità, salvaguardano l’habitat delle specie viventi. Inoltre la dimensioni imposte delle maglie delle reti hanno una larghezza tale da permettere la fuoriuscita di pesci di piccola taglia, assicurando che il pesce di quelle dimensioni possa continuare a vivere e a riprodursi. Purtroppo molti altri paesi non si curano del problema, lasciando libera la pesca o controllando poco o niente le conseguenze di questa attività che, tra l’altro, comporta una quantità di scarto di pescato pari a circa 5 milioni di tonnellate all’anno, pesci morti inutilmente. Arare il fondale con questo sistema è sicuramente più vantaggioso economicamente per chi pesca, in quanto intercetta circa il 20% di pesce in più, ma lascia danni all’ambiente incalcolabili minando, nel tempo, la pesca stessa.
SCOPRI DI PIU'Quali differenze e caratteristiche hanno le cariche vegetali nei prodotti legno-plastica di Marco ArezioI polimeri termoplastici riciclati hanno una lunga storia di combinazioni con cariche e fibre, che permettono di migliorare le prestazioni fisico-meccaniche dei manufatti che sono realizzati attraverso questi compound. Le modificazioni che maggiormente possiamo notare dall’unione di un polimero termoplastico riciclato con le cariche, possono riguardare la resistenza alla flessione, alla compressione, all’urto, al taglio, all’abrasione, alla temperatura, all’invecchiamento, all’azione dei raggi U.V. e, certamente, alla riciclabilità dell’elemento. Cosa è un polimero termoplastico? Per polimero termoplastico riciclato, molto brevemente, si intende un elemento, di derivazione petrolifera, che rammollisce in presenza di una fonte di calore (estrusione, stampaggio, soffiaggio o altri metodi di lavorazione) e si solidifica raffreddandosi, avente una disposizione delle catene polimeriche lineari o ramificate. Il comportamento delle molecole e la loro forza ne determinano le caratteristiche che, a loro volta, sono influenzate dalle temperature di lavorazione od ambientali a cui il polimero viene sottoposto. Cosa è una fibra o un riempimento vegetale? Le fibre sono dei filamenti dotati di un rapporto preciso tra lunghezza e diametro, che permettono il miglioramento delle caratteristiche di un composto in cui sono inglobate, sostituendo il volume del materiale primario, così da aumentarne la tenacità e la flessibilità. Le fibre, in generale, possono essere di tre categorie: inorganiche, organiche o naturali. Le prime, tra le più comuni utilizzate nei composti polimerici, sono a base di vetro, carbonio, grafite, alluminio. Tra le fibre organiche possiamo citare le poliammidi e le poliolefiniche. Per quanto riguarda le fibre naturali possiamo dividerle in tre categorie: vegetali, animali e minerali. Lo scopo dell’utilizzo delle fibre è quello di migliorare le seguenti caratteristiche: - la resistenza meccanica - il modulo elastico - il comportamento elastico a rottura - la riduzione del peso specifico Le fibre sono poi classificate in base ad elementi fisici, come la lunghezza, lo spessore, la forma, la finitura e la distribuzione volumetrica. Per raggiungere un miglioramento delle prestazioni tecniche del composto, le superfici delle fibre dovranno aderire in modo completo con la matrice polimerica, così da creare una continuità di materiale. Tale è l’importanza di questa unione fibro-polimerica, che si sono studiati degli additivi che possano aumentare e facilitare il contatto superficiale di ogni singola fibra con la matrice polimerica. Anche la disposizione delle fibre risulta critica per le caratteristiche del composito. Le proprietà meccaniche di un composito con fibre continue ed allineate sono fortemente anisotrope. Il rinforzo e la conseguente resistenza, raggiungono il massimo valore nella direzione di allineamento ed il minimo nella direzione trasversale. Infatti, lungo questa direzione l'effetto di rinforzo delle fibre è praticamente nullo e, normalmente, si presentano delle fratture per valori di carichi di trazione relativamente bassi. Per altre orientazioni del carico, la resistenza globale del composito assume valori intermedi. Nella produzione del WPC (wood plastic composit), quindi, si utilizzano due elementi che sono rappresentati da un polimero plastico riciclato, come l’HDPE o l’LDPE o il PVC e la fibra vegetale composta dagli scarti delle lavorazioni del legno o fa fibre vegetali naturali. In base alla qualità, resistenza, colorazione e dimensioni dei manufatti da realizzare, è possibile utilizzare un semplice riempimento composto da segatura, piuttosto che farina di legno, fibra di legno o cellulosa. La scelta del polimero riciclato, invece, è influenzata anche dalle temperature di esercizio degli estrusori, che non dovranno rovinare termicamente le cariche vegetali e, nello stesso tempo, degradare il polimero che resterà il collante e la struttura portante del manufatto. La produzione del WPC avviene per estrusione o stampaggio, attraverso l’uso di un granulo plastico, che contiene la carica stabilita per la realizzazione di un determinato prodotto e nelle quantità programmate. Oltre alla fibra di legno costituita da segatura o farina di legno, è possibile realizzare compound più performanti utilizzando la fibra vegetale di canapa, normalmente disposta lungo la linea di direzione degli sforzi maggiori.Foto Gla pavimenti
SCOPRI DI PIU'Movimenti societari importanti si vedono nel campo della produzione di energia pulita proveniente da fonti alternative, come gli scarti delle lavorazioni agricole e i rifiuti umidi urbani, detti FORSU. Come riportato da porto ravenna, la società Rosetti Marino Spa ha acquisito il 60% di Green Methane.Rosetti Marino S.p.A. ha acquistato il 60% di Green Methane s.r.l., società leader in Italia nella progettazione, realizzazione e messa in marcia di impianti per la trasformazione di Biogas in Biometano. L’accordo per il subentro nel controllo di Green Methane da parte della Rosetti Marino è stato raggiunto tra l’Amministratore Delegato della società ravennate Ing. Oscar Guerra da un lato e dal Dott. Ferruccio Marchi e dall’Ing. Luigi Tomasi dall’altro, rispettivamente Presidenti delle società fondatrici cedenti Marchi Energia s.r.l. e Giammarco-Vetrocoke Engineering s.r.l.. Le società cedenti mantengono comunque importanti quote nella nuova compagine societaria capitanata da Rosetti Marino, che col suo Gruppo metterà a disposizione di Green Methane le notevoli capacità ed esperienze tecniche, gestionali ed organizzative di cui dispone. Gli scarti di lavorazioni agricole e la frazione organica di rifiuti solidi urbani (FORSU) sono le materie prime da cui si genera il Biogas, che ha quindi origine non fossile ed è costituito prevalentemente da Metano e Anidride Carbonica (CO2). Gli impianti di Green Methane purificano il Biogas dalla CO2 e producono un Metano Verde con caratteristiche idonee, sia per l’immissione nella rete distributiva del gas che arriva alle nostre case, sia per autotrazione. La tecnologia di Green Methane è stata selezionata dal Gruppo ravennate perché produce Biometano con un elevatissimo livello di purezza e perché i suoi impianti – che sono caratterizzati da alta efficienza e ridotti costi di esercizio – risultano perfettamente compatibili con quelli di liquefazione del Metano e di generazione di Idrogeno da Metano, già sviluppati da Rosetti Marino tramite la sua controllata Fores Engineering s.r.l. Inoltre, la CO2 separata dal Biogas è disponibile ad elevata purezza ed idonea per successivi utilizzi o destinazioni (CCU o CCS) senza ulteriori trattamenti. L’obiettivo dichiarato di Rosetti Marino è quindi quello di proporsi al mercato come contrattista integrato sull’intera linea di trattamento del Biogas, garantendo, in base alle esigenze della clientela, impianti per la produzione di Metano Verde, anche liquefatto, e Idrogeno Verde. Inoltre, per il Gruppo ravennate la tecnologia Green Methane rappresenta anche l’accesso diretto alle tecnologie per la cattura della CO2, essenziale per il raggiungimento degli obiettivi di de-carbonizzazione dettati dal Green Deal europeo e dalla Conferenza COP 21 di Parigi. L’operazione Green Methane si innesta dunque in un progetto imprenditoriale di ampio respiro, che mira a consolidare la posizione di Rosetti Marino quale protagonista nel mercato dell’impiantistica per l’Energia, sia nel presente contesto di transizione energetica e sia in un futuro caratterizzato prevalentemente dall’impiego delle fonti rinnovabili e dall’economia circolare.
SCOPRI DI PIU'Plastiche riciclate per vespai areati: quali effetti statici e dinamici si trasmettono sui vespai in plastica riciclata utilizzando miscele differenti di Marco ArezioGli antichi romani avevano già capito, nella costruzione degli edifici, l’importanza della creazione di una intercapedine areata, tra il terreno e il pavimento, al fine di evitare la risalita capillare dell’umidità e permettere un isolamento termico del piano. Il vespaio veniva costruito utilizzando muretti collegati tra loro o con anfore come base di riempimento. Con l’evoluzione delle costruzioni, il vespaio areato ha avuto molteplici usi, non solo quello di isolare dall’umidità, ma è stato possibile impiegare, nel modo migliore, lo spazio che si crea tra il terreno e il piano. Fino a pochi anni fa, prima dell’avvento della plastica nell’edilizia, la costruzione dei vespai veniva fatta attraverso i tavelloni, per le parti orizzontali, e i mattoni o blocchi in cemento per la parete verticale. Questo sistema però non garantiva totalmente l’isolamento tra un piano e l’altro. Oggi, con l’utilizzo degli elementi in plastica riciclata, si sono ampliate le possibilità d’impiego dell’intercapedine e migliorate le sue doti tecniche. Vediamo quali sono i possibili usi degli elementi di separazione in plastica riciclata: 1) La funzione classica per cui era nato è quello di creare, attraverso elementi modulari continui di plastica, una efficace separazione tra il piano abitato e il terreno di fondazione, impedendo la risalita capillare dell’umidità. Inoltre lo spazio che si viene a creare, permette agevolmente il passaggio degli impianti per le funzioni della casa. 2) L’intercapedine monolitica formata, permette l’evacuazione del gas Radon che si forma nel terreno. Questo, è un gas radioattivo, incolore e inodore, formato dal decadimento dell’uranio 238, che ha la capacità di insinuarsi nelle fessure del terreno e saturare gli scantinati o i piani a contatto con esso. Attraverso la posa degli elementi in plastica sui quali si creerà un getto di calcestruzzo continuo, si creerà una ventilazione naturale, con ingressi dell’aria a nord e uscita a sud, così da evitare i ristagni del gas. 3) La creazione di tetti ventilati, specialmente per quelli orizzontali, permette una naturale regolazione degli sbalzi termici che aiutano, insieme ad un corretto isolamento, la vivibilità degli ambienti sottostanti e il risparmio energetico. 4) Gli elementi in plastica di altezze ridotte, specialmente quelli di 5 cm., aiutano ad un corretto isolamento acustico, insieme a tappetini smorzanti, in quanto l’aria ferma all’interno delle celle, aiuta lo smorzamento delle onde sonore. 5) Un’altra funzione è quella di poter creare giardini pensili con la caratteristica di poter isolare il manto impermeabilizzante dalle radici delle piante. È noto infatti che la maggior parte dei difetti dei giardini pensili riguarda la percolazione dell’acqua meteorica, in quanto l’azione delle radici, apre varchi nei manti bituminosi impermeabili, con il possibile passaggio di acqua. Gli elementi in plastica sono estremamente resistenti all’azione di perforazione delle piante. Sicuramente ci sono molte altre funzioni che il vespaio in plastica può assolvere ma, elencando le più comuni, ho cercato di dare un’idea del suo utilizzo. Una volta deciso quale utilizzo si deve fare degli elementi separatori, è importante capire come vengono prodotti per poter scegliere gli elementi che siano idonei al nostro lavoro. Le caratteristiche principali che si chiedono ad un insieme di elementi che costituiranno la struttura portante per il nostro getto in calcestruzzo nell’estradosso sono: Flessibilità dell’elemento Resistenza a compressione verticale Resistenza alla flessione delle cupole Mantenimento dimensionale dei singoli pezzi dopo lo stampaggio per poter essere assemblati senza fatica dagli operatori e senza lasciare vuoti Assenza di fragilità durante la movimentazione Spessori corretti in funzione della materia prima utilizzata Indeformabilità sotto l’effetto del peso del calcestruzzo fresco Pedonabilità minima dell’elemento espressa nella capacità di sostenere l’addetto al getto del solaio, che non deve essere inferiore a 150 Kg. calcolata su una superficie di cm.8 x cm.8. Queste caratteristiche, fermo restando una corretta progettazione dello stampo e dell’elemento stesso, si raggiungono con una giusta scelta delle materie prime riciclate, che potranno aumentare o diminuire determinate caratteristiche. Il materiale più comunemente usato appartiene alla famiglia del polipropilene, in particolare un compound misto tra PP e PE che permette discrete performance meccaniche e un costo produttivo contenuto. In alcuni casi si produce l’elemento in HDPE, che attribuisce agli elementi migliori prestazioni tecniche a fronte di costi produttivi più alti. La ricetta di PP+PE impiegata ha delle limitazioni tecniche da tenere presente: 1) Il compound in PP+PE normalmente proviene dai componenti della raccolta differenziata, che è costituita da scarti di polipropilene rigidi e da scarti flessibili di polietilene a bassa densità. I due elementi sono di difficile manipolazione dal punto di vista termico, in fase di stampaggio, con il rischio di degradazione del materiale e la formazione di gas all’interno dell’elemento stampato. Questi micro fori possono creare un indebolimento dell’elemento. 2) Il compound ottenuto ha, in generale, delle buone caratteristiche meccaniche verticali, in particolare per quanto riguarda la resistenza a compressione, ma, di contro, ha una limitata resistenza alla flessione e alla torsione. La conoscenza dei limiti tecnici di questo compound permette normalmente la risoluzione di questi minus con un’appropriata progettazione delle fasce di rinforzo attraverso il posizionamento di setti reticolari, nei punti più soggetti alle possibili rotture. 3) La ricerca di un’economicità esasperata potrebbe indurre i produttori a ridurre il polipropilene all’interno della miscela a vantaggio dell’LDPE, creando situazioni di debolezza strutturale che dovrebbero essere compensate con l’aggiunta di HDPE e/o cariche minerali. Lo studio di ricette così complesse è sicuramente sconsigliato nella produzione di elementi sui quali si deve camminare in sicurezza, al fine di evitare incidenti, in quanto richiedono una competenza tecnica elevata e il controllo dell’input in entrata attraverso analisi di laboratorio frequenti. In alcuni casi si utilizza una miscela di HDPE che può essere composta da granulo derivante dalla lavorazione dei tappi del settore delle bevande o con compound misti con tappi e flaconi dei detersivi. Secondo i dati raccolti possiamo indicare alcune differenze: 1) La produzione dei vespai in plastica riciclata utilizzando granuli che provengono dai tappi in HDPE comporta di dover lavorare una materia prima che ha una fluidità sicuramente più bassa rispetto al compound in PP+PE, normalmente 1,5-2 a 2,16 Kg./190° contro un MFI 5-6 a 2,16 Kg./230°. Questo significa che bisogna tener presente anche la dimensione della pressa da utilizzare in quanto il polimero in HDPE è sicuramente meno fluido. Le caratteristiche meccaniche di questo compound si possono riassumere in una buona resistenza a compressione e un’eccellente resistenza a flessione e torsione degli elementi stampati. C’è però da tener presente un fattore importante che potrebbe influenzare la scelta di questo polimero. In presenza di superfici di posa molto estese e in corrispondenza di picchi di temperature molto elevate, c’è da considerare che l’elemento in HDPE, agganciato in modo continuativo con altri moduli, all’interno del reticolo delle travi, potrebbe subire una deformazione importante dato dalla reazione al calore del sole. Il problema si può risolvere, in fase di granulazione, aggiungendo una percentuale di carica minerale che sterilizza le reazioni espansive dell’HDPE. 2) Ci sono casi in cui la resistenza del modulo sia un elemento fondamentale e, in presenza di spessori sottili delle pareti del prodotto, si può optare ad un mix formato dalla granulazione di tappi e flaconi in HDPE o dei soli flaconi. La riduzione della fluidità dell’impasto porta un aumento delle performance meccaniche degli elementi a parità di caratteristiche fisiche dell’elemento, con valori di fluidità che vanno da 0,3 a 1 a 2,16 Kg./190°.Categoria: notizie - tecnica - plastica - riciclo - vespaio in plastica - PP - edilizia
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