La siccità è arrivata in modo devastante anche in Europa, forse adesso ascolteremo la terra?di Marco ArezioIl Covid, la guerra, il caldo asfissiante, la siccità, la mancanza di energia, i flussi migratori in crescita, questa è la fotografia del nostro vivere contemporaneo. I problemi ci piace vederli in televisione, con l’idea sciocca che rimangano confinati li dentro, poi, facciamo la vita di sempre, facendo finta che tutto vada bene. E’ una forma di protezione? Forse, ma di fatto la situazione è proprio questa, un insieme di fatti concatenati (e non li ho citati tutti), che rendono complicata la vita di oggi e del medio periodo. Di cambiamenti climatici piace parlarne a tutti, siamo tutti ecologisti per uniformarci alla massa che, ora, cammina in questo senso, ma in realtà, nella nostra vita quotidiana ci comportiamo in modo non troppo green. Noi rispecchiamo la classe politica che eleggiamo, che dovrebbe prendere delle decisioni per la comunità, anche impopolari, nella giusta direzione per il nostro futuro, ma la politica oggi sembra un grande social e i politici, come influencers, devono piacere e compiacere, non governare. Quindi risolvere i problemi climatici è difficile, perché sembra non ci siano nell’agenda delle priorità, anche se ne parlano giornalmente. Da anni si parla di energie rinnovabili e da anni si fa pochino per aumentare seriamente la produzione di energia dal sole e dal vento, ma adesso che il prezzo del gas è andato alle stelle si rispolverano vecchi progetti lasciati nei cassetti dei burocrati. Per quanto riguarda l’acqua la faccenda è, purtroppo, ancora più grave in quanto non basta finanziare nuovi progetti, come è successo per le energie rinnovabili, per avere più acqua, in quanto questa è difficilmente producibile. Anche per il settore idrico, bene primario per la popolazione, le istituzioni hanno fatto sempre poco, molto poco, in un paese che fino a poco tempo fa non aveva il problema della siccità, non si è mai investito abbastanza sugli acquedotti, che in molti casi disperdono lungo il tragitto anche il 30-40% della loro portata. Non si è investito sugli accumuli, creando nelle zone più piovose, come in montagna, invasi che potessero fungere da riserva d’acqua quando necessario, non si è investito in impianti di desalinizzazione lungo le coste e non si è mai affrontato una gestione organica e sociale delle acque sotterranee profonde. Secondo i dati Istat del 2019, le acque sotterranee garantiscono l’84% del fabbisogno idropotabile (48% da pozzi e 36% da sorgenti), oltre a coprire una parte significativa delle esigenze agricole e industriali. Pur risentendo della diminuzione delle piogge, la risorsa idrica sotterranea nazionale si rinnova annualmente per circa 50 miliardi di metri cubi, valore paragonabile all’acqua invasata in media nel Lago di Garda e a quella che mediamente il fiume Po scarica in Adriatico in un anno. Inoltre si dovrebbe sfruttare di più la risorsa dell’umidità dell’aria, in quanto è possibile costruire deumidificatori che, spinti da energia rinnovabile, trasformino l’umidità in acqua potabile. Questi impianti potrebbero contribuire alla riduzione dell’uso dell’acqua che preleviamo dagli acquedotti, facendo risparmiare risorse naturali importanti. Forse è il caso di svegliarci e fare tutti, nel nostro piccolo, qualche cosa.
SCOPRI DI PIU'Si monitora spesso la qualità dell’aria in ambienti aperti ma poco si fa e poco si sa dell’inquinamento indoordi Marco ArezioDell’inquinamento dell’aria nelle nostre città, in aree densamente trafficate o nelle vicinanze di insediamenti industriali si sente spesso parlare. I cittadini conoscono le centraline di rilevamento delle polveri sottili di cui i centri urbani si sono dotati, per regolare i giorni di chiusura al traffico privato, quando i valori di inquinanti superano una certa soglia. L’attenta fase di monitoraggio della qualità dell’aria che respiriamo all’aperto, oltre ad allarmare l’opinione pubblica e ad imporle restrizioni nella circolazione privata, serve poco se, da anni, non si interviene drasticamente con una politica di ripensamento dell’uso dei combustibili fossili. Ma la situazione dell’aria inquinata all’interno degli uffici, abitazioni, luoghi di aggregazione pubblica, ospedali, cinema, scuole, palazzetti dello sport, non desta particolare attenzione, pensando che il controllo dell’aria esterna sia sufficiente. In realtà non lo è, per una serie di ragioni che riguardano il basso riciclo dell’aria che respiriamo in un ambiente chiuso, gli inquinanti che si generano abitandovi come il riscaldamento, la respirazione, le possibili emissioni dagli arredamenti, i materiali da costruzione e per molti altri motivi. Se all’esterno, l’aria può essere dannosa per la salute in determinati periodi dell’anno, dobbiamo considerare che, fortunatamente, gli inquinanti sono diluiti in volumi di aria importanti, che se li comparassimo in un ambiente chiuso e poco ventilato, sarebbero estremamente pericolosi. L’aria che respiriamo dovrebbe essere composta da: • 78% azoto • 5% diossido di carbonio • 13% ossigeno • 1% argon In realtà, nei locali chiusi, possiamo trovare altre concentrazioni di inquinanti, vediamone alcuni. Il Particolato, PM10 e il PM2,5, non deriva solo dal traffico veicolare o dalle emissioni degli impianti di riscaldamento in atmosfera, ma si può sviluppare in casa attraverso la combustione di legna, carbone o altri fonti fossili. L’ Ossido e Biossido di azoto, NOx e NO2, si possono trovare all’interno delle abitazioni a causa dei processi di combustione durante la cottura dei cibi, l’uso del riscaldamento, con la probabilità di provocare irritazione oculare, nasale o a carico della gola e tosse, alterazioni della funzionalità respiratoria soprattutto in soggetti sensibili, quali bambini, persone asmatiche o affette da bronchite cronica. Gli idrocarburi aromatici policiclici, IPA, sono un ampio gruppo di composti organici presenti nell’aria indoor: le sorgenti principali sono le fonti di combustione, quali caldaie a cherosene, camini a legna e il fumo di sigaretta. L’Ozono si può formare quando gli ossidi di azoto della combustione di fonti fossili, come il carbone o altri prodotti per il riscaldamento, interagisce con la luce. Una lunga esposizione a livelli elevati di ozono può causare problemi respiratori, tra cui asma e bronchite. Monossido di Carbonio, CO, viene prodotto principalmente dal fenomeno della combustione, come ad esempio dal fumo di tabacco, stufe a legna o a gas. È incolore, inodore, insapore ma tossico. A seconda della quantità respirata può provocare cefalea, confusione e disorientamento, ma senza una ventilazione adeguata, a concentrazioni elevate, può addirittura essere mortale. I composti organici volatili, VOC, possono essere inalati e possono provenire dai prodotti cosmetici o dai deodoranti, dai dispositivi di riscaldamento, dai prodotti di pulizia, dagli strumenti di lavoro, quali stampanti e fotocopiatrici, i materiali da costruzione e di arredamento. Tra i VOC più pericolosi troviamo la Formaldeide che può essere emessa dalle resine, usate per l’isolamento, per il truciolato o per il compensato di legno, nonché in tappezzerie, moquette e tendaggi, causando alterazioni al sistema nervoso ed è potenzialmente cancerogeno. Ci sono sicuramente altre tipologie di inquinanti di cui si potrebbe parlare ma, quelle che abbiamo elencato rientrano nei composti chimici che con più probabilità e frequenza potremmo trovare negli ambienti chiusi. Come possiamo rilevare preventivamente la presenza di sostanze pericolose alla salute? Ci sono in commercio delle attrezzature di rilevazione dei volatili presenti negli ambienti chiusi che, utilizzando la gascromatografia a mobilità ionica, possono fare una fotografia reale e analiticamente precisa della situazione dell’aria e fornire le indicazioni corrette per intervenire tempestivamente. Le attrezzature che rilevano gli inquinanti sono leggere e facilmente trasportabili, dando un risultato di analisi preciso, sia su inquinanti percepibili dal naso umano, che quelli inodore. Qui di seguito riportiamo le caratteristiche di uno strumento di rilevazione basato sulla gascromatografia a mobilità ionica: • Separazione / rilevamento tecnica: Bidimensionale, separazione mediante gas cromatografia a mobilità ionica • Fonte di ionizzazione: 3H, <300 MBq, di seguito definito EUROATOM limite acc. al 2013/59 Direttiva EURATOM • Limite di rilevamento: Tipicamente livello sub-ppb • Controllo di flusso: Controllo elettronico della pressione • Campionamento: Valvola a 6 vie (Cheminert®), pompa integrata • Display: 6,4 "TFT • Trasferimento dati: Modbus TCP, corrente loop, USB, Ethernet • Risultato automatizzato output: Modbus TCP, corrente ciclo continuo • Caratteristiche di sicurezza: Watchdog hardware, autocontrollo dei parametri dei sistemi • Dimensioni (L x P x A): 449 x 435 x 287 mm
SCOPRI DI PIU'Le scoperte nel campo chimico avviarono produzioni industriali in molti campi e con esse la necessità di riutilizzare i rifiutidi Marco ArezioLa rivoluzione chimica, che a partire dal 1700 interesserò le nazioni europee più progredite, pose in evidenza i primi problemi ambientali creati dagli scarti delle produzioni chimiche. Iniziò in quel periodo, insieme alle nuove scoperte, la ricerca di riutilizzo dei rifiuti prodotti dall’uomo. Il primo processo chimico industriale, in senso moderno, è stato quello inventato nel 1791, dal chimico francese Nicolas Leblanc (1742-1806), per la produzione del carbonato sodico in due passaggi. Leblanc ebbe, tuttavia, una vita lavorativa travagliata in quanto le sue ricerche furono finanziate inizialmente dal Duca di Orleans Filippo Egalité, con la speranza di poter vincere il premio messo in palio dall’Accademia delle Scienze Francesi per poter iniziare quindi una produzione industriale. Tuttavia nel 1793 il Duca venne giustiziato e i brevetti di Leblanc non furono riconosciuti validi, ricevendo anche la confisca dello stabilimento di produzione e il rifiuto del premio sperato. Nonostante Napoleone nel 1802 gli restituì la fabbrica, senza premio in denaro, Leblanc non ebbe le forze economiche per ripartire e nel 1806 di suicidò. La prima fase del processo di produzione del metodo Leblanc consisteva nel trattare il cloruro di sodio con acido solforico, il quale si formava in solfato di sodio, creando un rifiuto sotto forma di acido cloridrico gassoso, che per molto tempo fu rilasciato in atmosfera con gravi problemi verso le popolazioni che abitavano nelle vicinanze delle fabbriche e con la distruzione della vegetazione circostante. Il secondo passaggio consisteva nello scaldare il solfato di sodio con carbone e carbonato di calcio, miscela con la quale si otteneva il carbonato di sodio e il solfuro di calcio, poco solubile in acqua, che rappresentava il rifiuto solido del processo e veniva scartato costituendo mucchi all’aria aperta. Durante l’esposizione alle piogge, si liberava idrogeno solforato, gas nocivo e puzzolente. Gli abitanti iniziarono forme di protesta degne di nota contro l’inquinamento atmosferico, creando di fatto le prime contestazione ecologiche, che spinsero gli industriali della soda a cercare delle soluzioni al problema. In quell’occasione l’industria chimica scoprì che dai rifiuti era possibile recuperare qualcosa di utile e vendibile, infatti dall’acido cloridrico era possibile ottenere cloro, una merce che si capì che aveva un suo mercato finale e dal solfuro di calcio era possibile recuperare zolfo, che sarebbe stato vendibile alle fabbriche di acido solforico. Nel XIX° secolo, periodo in cui iniziò a fiorire l’industria pesante dell’acciaio, l’inventore francese Pierre Émile Martin (1824-1915) nel 1865 mise a punto un forno che poteva decarburare la ghisa su larga scala e poteva essere caricato con ghisa fusa ma anche con i rottami di ferro. Nel corso dell’Ottocento infatti, tali rottami si stavano accumulando a seguito della sostituzione dei vecchi macchinari con quelli nuovi, cosi questi rifiuti diventarono materie prime seconde, come le chiamiamo oggi. Il XX° secolo ha visto il progresso industriale crescere in modo continuo e vorticoso, passando da due guerre mondiali, una grande crisi economica-industriale, la conquista dello spazio, le nuove tecnologie, il benessere diffuso, la guerra fredda con la corsa alla creazione degli arsenali atomici, lo spostamento per lavoro e per turismo di grandi masse di persone attraverso l’industria aeronautica, lo sviluppo dei satelliti e le tecnologie legate alla comunicazione hanno alimentato un nuovo mercato di apparecchi, spinti anche dalla nuova intelligenza artificiale che ci fa comunicare attraverso i computers. Tutto questo progresso ha creato un numero crescente di rifiuti che nel passato erano abbandonati in modo superficiale nelle discariche, sulle quali venivano create graziose collinette cosparse di alberi, ma nel sottosuolo non ci si preoccupava di sapere se i rifiuti interrati continuassero a rilasciare i loro veleni. Si capì, più tardi, che molti rifiuti pericolosi continuavano a vivere e ad interagire negativamente con l’ambiente, per cui si iniziò a creare delle linee guide su come isolare le discariche da eventuali perdite di liquami tossici. Qualsiasi sforzo fatto per “nascondere” i rifiuti sembrava vano visto la continua crescita di merce dello scarto e, quindi, si iniziò a parlare di riciclo e termodistruzione. Se la strada di bruciare i rifiuti sembrava fosse comoda e “purificatrice”, ci si accorse ben presto che l’inquinamento espresso da un rifiuto solido pericoloso non sublimava con il fuoco, ma veniva solamente trasformato da solido in fumi, andando ad inquinare l’aria e, a cascata con le piogge, i terreni. Si dovette arrivare alle nuove generazioni di termovalorizzatori per risolvere questo problema ambientale e creando nello stesso modo energia elettrica rinnovabile. Il riciclo meccanico fu allora il solo mezzo per recuperare e riutilizzare i rifiuti che si accumulavano, ma ci volle molto tempo perché i governi e la popolazione capissero che si doveva iniziare con la raccolta differenziata e che l’industria aveva bisogno di normative precise per produrre arrecando i danni minori possibili all’ecosistema. Il futuro del riciclo si raggiungerà con l’integrazione tra processi meccanici, chimici, coadiuvati dalle energie rinnovabili.Categoria: notizie - plastica - economia circolare - rifiuti - storiaImmagine: Vernet, Claude Joseph – Seaport by Moonlight – 1771
SCOPRI DI PIU'Progetto di Consulenza per l'Esportazione di TPO Riciclato in Sveziadi Marco ArezioIl TPO è una Poliolefine composta che si adatta ad innumerevoli applicazioni in settori tecnici di produzione. Il materiale impiegato in modo importante nel settore dell’automotive, viene recuperato, prevalentemente, come scarto industriale.Il mercato dei compounds tecnici richiedono uno scarto di TPO che abbia un bassissimo contenuto di polietilene reticolato, o addirittura nullo, il quale molte volte viene impiegato a corredo dei fogli di copertura delle parti interne delle auto. Rimane comunque un mercato di nicchia, in quanto il riutilizzo dello scarto post industriale può essere impiegato in settori che non siano il food o il medicale e, la ridotta disponibilità sul mercato, hanno spesso privilegiato la produzione di compounds con le materie prime vergini. La società di consulenza sulle materie prime riciclate, Arezio Marco, è stata incaricata di valutare dei canali di vendita per le balle di TPO in Europa, per permettere al cliente di poter seguire l’ingresso dello scarto di produzione con maggiore costanza, avendo, a valle, un mercato regolare a cui vendere il prodotto selezionato. Il compito della società Arezio Marco è stato quello di ottimizzare i flussi in ingresso, derivanti dai produttori degli scarti, con i flussi di vendita verso i trasformatori della materia prima, creando nuovi rapporti con clienti che potessero acquistare in modo continuativo il TPO in balle. La Svezia si è dimostrato un paese in cui l’interesse per il prodotto è stato importante, potendo costruire una buona partnership tra fornitore e cliente.Categoria: notizie - plastica - economia circolare - riciclo - rifiuti - TPO
SCOPRI DI PIU'La diminuzione delle risorse naturali e l’aumento dei rifiuti elettronici impongono scelte urgenti. Cosa sta Facendo l’UEdi Marco ArezioIn un mondo in cui vige ancora il consumo veloce o super veloce, dove si applica l’usa e getta anche di apparecchiature elettroniche costose, è forse il momento di cambiare questo paradigma che arricchisce le aziende produttrici, diseduca la popolazione al riuso e all’economia circolare e aumenta in modo esponenziale i rifiuti RAEE che sono, ancora oggi, di difficile gestione. Cosa è l’obsolescenza programmata? E’ una pratica industriale, secondo la quale il bene venduto è standardizzato per avere una vita di utilizzo più breve di quello che in realtà potrebbe. Questo può avvenire attraverso aggiornamenti tecnologici non supportabili dal prodotto, da una minore qualità di alcuni componenti che ne riducono la durata o dalla difficoltà di riparazioni, anche banali, per la mancanza programmata di pezzi di ricambio o difficoltà tecniche nelle riparazioni. L’obsolescenza programmata non è però una pratica moderna, già nel 1924, un consorzio di aziende occidentali produttrici di lampadine si accordò per produrle con una durata massima di 1000 ore di accensione, così da aumentarne la vendita. Un altro episodio che possiamo citare nel periodo post bellico, intorno agli anni ’50 del secolo scorso, periodo nel quale si affacciarono sul mercato i collant prodotti in Nylon. Il materiale era così robusto e durevole che non si rompeva facilmente, così fu commissionato, al produttore del filo, un prodotto che permetteva una sostituzione dei collant con maggiore frequenza. Oggi possiamo dire che quando si parla di obsolescenza programmata la nostra mente si rivolge frequentemente agli smartphone, oggetti del desiderio dei consumatori, dove il concetto di usa e getta è stato radicato dai produttori. Attraverso manipolazioni tecnologiche, che fanno rallentare il prodotto o nuove funzioni, interessanti per il pubblico, che sono istallate solo sugli smartphone nuovi, spinge il consumatore a fare nuovi acquisti buttando gli apparecchi vecchi. Perché i prodotti tecnologici sono di difficile riparazione? Un tempo si parava qualsiasi cosa, i prodotti erano più meccanici e meno elettronici ed era più semplice aprirli, individuare il guasto e sostituire il pezzo che creava il difetto. In questo modo si dava una vita maggiore al prodotto e, quindi, dal punto di vista di un’economia industriale, si producevano meno articoli. Oggi la tecnologia ha invaso ogni cosa e, quindi di per sé, sono più difficili le riparazioni in quanto è necessaria una preparazione tecnica maggiore. Ciò nonostante, se si avessero le competenze necessarie, è diventato molto difficile, non solo disporre dei pezzi di ricambio, ma certe parti dell’oggetto sono di difficile riparazione o aggiornamento, per un preciso disegno di marketing che spinge il consumatore non alla riparazione ma alla sostituzione. Inoltre, molte case produttrici vedono in modo negativo la possibile riparazione fatte da aziende esterne, quindi può mettere il veto all’intervento pena la perdita della garanzia. Inoltre, spesso, semplificano l’operazione di riparazione presso la loro sede attraverso la cessione, a prezzi calmierati, di un apparecchio sostitutivo, cosa che non fa altro che alimentare i rifiuti la non circolarità del sistema. Come si sta muovendo la Comunità Europea Finalmente la UE ha intavolato una discussione circa l’obsolescenza programmata e il diritto dei cittadini alea riparazioni, con la volontà di modificare le regole circa il diritto dei consumatori, per favorire il riuso e la riparazione dei prodotti e dei softwares elettronici. E’ in fase di redazione un piano d’azione per l’economia circolare, in 54 punti, che mira a promuovere prodotti durevoli che siano più facili da riparare, riutilizzare e riciclare, adottando nel contempo misure per sostenere i consumatori in questa transizione. Un'economia circolare comporterebbe 450 milioni di tonnellate in meno di emissioni di carbonio nell'UE entro il 2030, facendo risparmiare alle imprese dell'UE 600 miliardi di euro e 580.000 nuovi posti di lavoro, secondo la Commissione. Categoria: notizie - RAEE - economia circolare - riciclo - rifiuti - obsolescenza programmata
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