La filiera sostenibile è in crescita ma necessita di supporto e continuitàdi Marco ArezioQuando si parla di performances economiche di un settore, si pensa spesso alle industrie del comparto digitale o farmaceutico o legato alla tecnologia robotica o al settore energetico o a quelle aree di novità tecniche che rivoluzioneranno la nostra vita, come l’intelligenza artificiale. In realtà esistono altri settori, meno conosciuti, che rientrano ultimamente tra quelli di grande interesse strategico per le nazioni e che rispecchieranno trends di crescita molto importanti. Parliamo della bioeconomia, che in Europa conta già un fatturato di circa 2000 miliardi di euro l’anno, occupando più di 22 milioni di addetti in settori come l’agricoltura, la silvicoltura, la pesca, la lavorazione delle biomasse alimentari e quelle industriali. Per biomasse industriali, per esempio, parliamo della produzione di pasta di cellulosa per il mondo della carta, biocomposti chimici, biomateriali e biocombustibili. Un capitolo particolarmente interessante riguarda proprio questa ultima categoria che, rientrando nel campo della bioindustria, è diventata uno dei pilastri primari della bioeconomia Europea, in grado di convertire le biomasse, residuali o coltivate, in un’ampia gamma di prodotti sostenibili che possono sostituire quelli convenzionali. Gli studi indicano le seguenti previsioni di crescita del settore per il 2030: - Il 30% dei composti chimici avrà un’origine bio e riguarderanno la chimica fine e i prodotti di elevato valore aggiunto- Il 25% dell’energia dei trasporti sarà originata dalla biomassa, con particolare incremento dei carburanti sostenibili per il trasporto aereo - Il 30% dell’energia elettrica e termica in Europa deriverà dalla biomassa Inoltre, possiamo citare un mercato in forte espansione per quanto riguarda il settore dei biopolimeri, delle bioplastiche, delle fibre di origine biologica, dei biocompositi e derivati dalla nano-cellulosa. Si genereranno nuovi composti chimici, su base biologica, per il settore della cosmesi, farmaceutico, aereonavale, bioedilizia, dell’agricoltura e del settore automobilistico. Esiste inoltre un fiorente mercato delle macchine per la lavorazione e trasformazione delle biomasse in bioenergia e bioprodotti, che hanno un grande futuro di sviluppo e di occupazione. Ovviamente, un mercato giovane e potenzialmente in crescita si scontrerà con lo spirito conservatore del mercato degli idrocarburi, che cercherà di mantenere le posizioni commerciali incidendo sui prezzi al ribasso. Nella filiera della bioeconomia e della bioindustria il ruolo dei finanziamenti al sistema, attraverso gli incentivi per sostenere la competitività del settore, permettere di industrializzare e rendere sostenibile a livello imprenditoriale il mercato, sarà del tutto strategico. Le bioraffinerie diventeranno competitive quando: - Si potrà creare dei centri di trasformazione che lavorino multiprodotti e che il rifiuto sia di derivazione locale - Si creerà una filiera della raccolta dei rifiuti, in modo da rendere disponibili masse sufficienti per la lavorazione industriale in modo continuativo - I prezzi della cessione dei rifiuti dovranno essere competitivi per poter sostenere la filiera, ma nello stesso tempo essere sostenibili per gli agricoltori - Non creare la competizione nelle aree di coltivazione pregiate adatte alla produzione di cibo con quelle per la biomassa - Il ripristino dei terreni a bassa produttività per l’utilizzo di colture che possano sostenere l’industria della biomassa e, allo stesso tempo, migliorino il bilanciamento della CO2 e l’incremento della biodiversità.
SCOPRI DI PIU'Storia delle Calzature e dei Materiali: dal Papiro alla Plastica Riciclatadi Marco ArezioNella sezione di rNEWS del portale rMIX ci siamo occupati della genesi di alcune materie prime, della vita e delle scoperte di alcuni personaggi geniali nel campo chimico e della ricerca, della storia del riciclo e della raccolta differenziata e di alcuni prodotti, nati a volte per caso, che sono oggi di uso comune e di larga diffusione.Tra questi prodotti ci piace fare un passo indietro nel tempo e ripercorrere la storia delle calzature, dei materiali che le hanno composte e delle mode che nel tempo hanno determinato la nascita, lo sviluppo e il declino di alcuni modelli e materiali. E’ interessante vedere come dalla preistoria fino all’avvento dell’era dell’industria manifatturiera nel secolo scorso, i materiali siano stati modificati lentamente, per assumere un’esplosione di ricette e tipologie con l’introduzione dei polimeri plastici. Stabilire con esattezza quale sia stata la prima calzatura realizzata dall’uomo e la sua tipologia è complicato, in quanto la facile deperibilità del materiale di natura organica che veniva inizialmente utilizzato dalle popolazioni preistoriche, avendo nella calzatura l’unico mezzo di protezione dei piedi, non ha reso possibile il giungere fino a noi di antichi resti di quel periodo storico. Indubbiamente nell’era preistorica, quando si parla di scarpe, ci si riferisce a pelli non conciate e assicurate al piede dall’utilizzo di un sistema di lacci dello stesso materiale. Venivano prodotte anche suole in fibra vegetale intrecciate e fermate al piede con lo stesso sistema. Però un reperto molto prezioso, forse l’unico rimasto, è stato rinvenuto nel 2010: la scarpa più antica del mondo, risalente infatti circa al 3.500 a.C., durante uno scavo archeologico in una caverna in Armenia. Una scoperta che ha dell’incredibile visto l’ottimo stato di conservazione, costituita da un unico pezzo di pelle bovina, allacciata sia nella parte anteriore che nella parte posteriore con un cordoncino di cuoio. Siamo anche sicuri che l’uso delle calzature risale a molti anni prima, infatti, le incisioni rupestri di circa 15.000 anni fa raffiguravano uomini con già ai piedi delle calzature. Nel periodo Egizio la maggior parte della popolazione si spostava scalza e le scarpe erano destinate solo a figure sociali di rango superiore, anche se esisteva una carica onorifica, per i servitori dei faraoni e dei nobili, che veniva chiamata “portatori di sandali”. Gli Egizi avevano introdotto la concia delle pelli per i loro sandali, attraverso l’uso di oli vegetali, lavorate su telai e ammorbidite con materia grassa di origine animale. Le suole erano fatte in papiro, legno, cuoio o foglie di palma intrecciate in base all’uso che la scarpa era destinata. Tra il 3500 a.C. e il 2000 a.C. i Sumeri, popolo che viveva nella Mesopotamia meridionale, svilupparono nuove formule di concia delle pelli, affiancate alle tradizionali conce grasse, inserendo la concia minerale con allume e la concia vegetale con tannino. Tra il 2000 a.C. e il 1100 a.C. gli Ittiti, che vivevano nell’attuale regione montuosa dell’Anatolia, avevano sviluppato un tipo di calzature dalle caratteristiche di resistenza elevate, proprio per poter muoversi agevolmente in territori impervi e dai fondi difficoltosi. Anche gli Assiri, che prosperarono tra il 2000 a.C. e il 612 a.C., furono probabilmente i primi che crearono gli stivali alti fino al ginocchio, adatti a cavalcare e comodi nella gestione dei carri da guerra. Inoltre, oltre alla praticità di alcune calzature nelle fasi più difficili della vita quotidiana, gli Assiri stabilirono colori differenti delle calzature a seconda del ceto sociale di appartenenza: rosso per i nobili e giallo per la classe media che si poteva permettere delle scarpe. Nell’antica Grecia, tra il 2000 a.C. e il 146 a.C., si svilupparono varie forme di sandali costituiti da una suola di cuoio o di sughero che venivano fissate ai piedi con delle strisce di pelle. Inoltre introdussero uno stivaletto a mezza gamba allacciato sempre con strisce di cuoio di colore tradizionale o rosse. Gli antichi Romani, tra il 750 a.C. e il 476 d.C., in virtù della miscelazione con altre culture, come i Galli, gli Etruschi e i Greci, appresero la tecnica della concia delle pelli e svilupparono calzature per l’esercito e per la vita sociale. Infatti, i cittadini di un rango sociale elevato, utilizzavano un tipo di sandalo chiamato Calcei che consistevano in una suola piatta e tomaie in pelle che avvolgevano il piede. I romani introdussero il colore nero delle calzature per i senatori mentre il colore rosso era destinato alle alte cariche civili che, in occasioni di cerimonie pubbliche di particolare importanza, indossavano sandali con un rialzo nella suola per elevare la statura di chi le portava. L’imponente esercito Romano era dotato di calzature con suola spessa e resistente, adatte alle lunghe marce, in cui erano chiodate delle bullette. Tra il terzo secolo d.C. e il nono secolo d.C. si svilupparono tra i Franchi, antico popolo germanico, un tipo di calzatura con una punta lunga quanto circa la metà della lunghezza della scarpa. Inizialmente nata per i nobili, si sviluppò successivamente negli altri strati della popolazione con lunghezze della punta differenti così da differenziare il ceto sociale. Intorno al XII° secolo, i calzolai veneziani, divisi in categorie ben distinte tra i “Solarii”, che producevano suole e calze suolate e i “Patitari” che producevano zoccoli in pelle con suola alta, svilupparono un artigianato di grande valore. Ma fu tra il XVI° e il XVII° secolo, specie in Francia, i modelli delle calzature aumentarono in modo sorprendente per dare sfogo alle richieste di novità espresse dai nobili. Stivali al ginocchio o fino alla coscia, ciabatte o scarpette con pelle e seta addobbati con fili d’oro o d’argento espressi con ricami artistici. Nacque anche la moda dei tacchi, specialmente di colore rosso, espressione dell’alta nobiltà. Il famoso tacco Luigi XV, intagliato e decorato e le scarpe da signora dei maestri Italiani, erano i protagonisti del XVIII° secolo, in cui la Francia e l’Italia imponevano la moda in Europa. Un altro periodo di forte attenzione della moda verso le calzature lo troviamo nel XX° secolo, dove si realizzano scarpe con la punta allungata ispirate alla moda dell’art noveau e il tacco Luigi, ispirato alla moda rococò. Nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale i due paesi che dettavano la regola della moda erano sempre la Francia e l’Italia con Coco Chanel da una parte e Salvatore Ferragamo dall’altra. Tra gli anni 60 e gli anni 90 del secolo scorso la produzione di scarpe viene largamente influenzata dalle nuove materie prime plastiche che si sono affacciate sul mercato industriale. Se da una parte la moda prende una strada propria, come elemento di espressione artistica, la produzione di calzature per i cittadini comuni sperimenta nuovi materiali, più semplici da produrre a ciclo continuo e più economici da vendere. Materie prime come il PVC, il Poliuretano e le gomme sintetiche presero il sopravvento sulla pelle e il cuoio, creando scarpe economiche, robuste, flessibili ed impermeabili. Attraverso l’uso delle materie plastiche si passo da una produzione artigianale, in cui la manualità e il genio dell’uomo creava modelli particolari e raffinati, a una produzione dove le macchine aumentavano il numero di modelli prodotti per giornata lavorata permettendo un mercato più vasto. Infine, i materiali plastici riciclati entrarono a far parte delle materie prime di base per l’industria calzaturiera, specialmente per le suole o per gli stivali impermeabili, inserendo anche in questo settore i principi della circolarità dei materiali.Categoria: notizie - plastica - economia circolare - rifiuti - riciclo - calzature Vedi maggiori informazioni sulla storia delle calzature
SCOPRI DI PIU'La pandemia da Coronavirus ha visto aumentare in modo importante l'uso della plastica nei presidi di protezione individuale e nelle attività mediche di assistenzadi Marco ArezioMai come in questo periodo si è visto l'importanza di non demonizzare la plastica ma di ridarle il corretto posto che merita nella nostra vita, pur sapendo che un prodotto così versatile e utile deve essere smaltito e riciclato in modo corretto per creare nuova materia prima. L'articolo di Anna Munzio ci parla proprio di questo.La Reuters ha parlato di «pandemia della plastica». Perché il virus che ha sconvolto il mondo ha avuto l'effetto non del tutto secondario di farci capire come sia indispensabile questo materiale per una delle sue qualità forse più nascoste, la protezione. Dei cibi e delle bevande, ma soprattutto dal virus: così è partita la «corsa alla plastica», il nuovo oro utilizzato in mascherine, visiere, guanti, contenitori di plastica per alimenti e plastica a bolle da imballaggio per milioni di consegne a domicilio. Una corsa che ha fatto dimenticare, dopo anni di campagne, il problema principale di questo materiale magico, leggero, all'occorrenza trasparente e che quando nacque sembrò ecologico perché sostituiva risorse naturali come avorio o legno: i tempi di decomposizione, che si misurano in secoli, e l'inquinamento che ne consegue. La soluzione da tempo è indicata nel riciclo. Un sistema gestito in Italia da Corepla che nel 2019 ha raccolto 1.370.000 tonnellate di plastica in modo differenziato, il 13 per cento in più rispetto al 2018, e che oggi copre 7.345 comuni coinvolgendo 58.377.389 cittadini. Anch'esso però è stato messo sotto stress dal Covid-19. Tra marzo e aprile, in pieno lockdown, è aumentata la quantità di rifiuti di imballaggio in plastica gestiti da Corepla ma anche la quota destinata alla termovalorizzazione e quella conferita in discarica. Il presidente di Corepla, Giorgio Quagliuolo, ci anticipa qualche dato su questo anno complicato anche sul fronte della gestione rifiuti: «Il 2020 vedrà una crescita a cifra singola dei quantitativi di rifiuti di imballaggio in plastica gestiti da Corepla, con picchi proprio in corrispondenza dei periodi di lockdown di marzo/aprile che hanno evidenziato un aumento dell'8 per cento, in controtendenza rispetto alla riduzione dei consumi (-4 per cento) e alla produzione dei rifiuti urbani (-10/14 per cento) del medesimo periodo». A cosa sono state dovute le maggiori criticità? «Alla chiusura delle attività commerciali e produttive e al brusco arresto dell'export: in sette settimane di lockdown è stata bloccata l'esportazione di oltre 16mila tonnellate di rifiuti urbani. In più, il blocco quasi totale del settore delle costruzioni ha fortemente ridotto l'utilizzo della frazione di imballaggi non riciclabili meccanicamente come combustibile nei cementifici. Cause che si sono unite alla saturazione della capacità disponibile negli impianti nazionali. Va detto che il sistema ha comunque tenuto, grazie a interventi straordinari che hanno evidenziato però le carenze strutturali impiantistiche e del mercato nazionale delle materie prime seconde». Se è vero che siamo quel che mangiamo è anche vero che siamo ciò che buttiamo nella spazzatura: e l'uso della plastica in fondo è una cartina al tornasole che rivela lo stato della nostra società, la sua economia ma anche gli stili di vita e la sensibilità ecologica dei consumatori. Dunque, la corsa alla plastica continuerà? Secondo il presidente questo dipende da diversi fattori: andamento della produzione industriale, propensione all'acquisto da parte dei consumatori, incognita della Plastic Tax, impatti della direttiva europea SUP - Single Use Plastics che intende limitare la plastica monouso, «tutti fattori resi più incerti dalla pandemia. Analoghe incertezze riguardano i numeri della raccolta, per la quale ci aspettiamo che si confermi il trend di crescita ma con rallentamenti fisiologici e legati alla situazione contingente». E le bioplastiche, di cui si fa sempre un gran parlare? «Nel 2019 hanno rappresentato circa il 3 per cento degli imballaggi in plastica immessi sul mercato; allo stato attuale della tecnologia è più complicato che possano sostituire le plastiche fossili in alcuni settori, quello medicale è possibile che sia uno di questi».Categoria: notizie - plastica - economia circolare
SCOPRI DI PIU'di Marco ArezioLa Cina della grande muraglia, della rivoluzione industriale, della potenza militare, dello sviluppo iper-tecnologico, dell’espansionismo nei paesi del terzo mondo specialmente in Africa e Sud America, delle guerre commerciali, delle pressioni sull’area indocinese, non aveva fatto i conti con il suo iper liberismo che è partito ai tempi di Deng, catapultando il paese dal socialismo maoista, che assicurava una ciotola di riso per tutti, alla rincorsa frenata a condizioni di vita più agiate rispetto alla dignitosa povertà in cui il popolo cinese aveva vissuto fino agli anni della pre industrializzazione diffusa. Le emergenze nazionali sono rappresentate principalmente dall’inquinamento dell’aria e da quello delle acque che ha fatto risvegliare in modo violento la Cina da un beato sonno in cui si vedevano solo le cose positive create dallo sviluppo, mettendo sotto il tappeto le conseguenze negative. Per quanto riguarda l’inquinamento dell’aria, secondo uno studio pubblicato della Berkeley Earth, in Cina muoiono circa 4000 persone al giorno per fenomeni legati a patologie che dipendono dall’inquinamento dell’aria. Gli scienziati attribuiscono la responsabilità dei decessi soprattutto alle emissioni delle centrali a carbone e in particolare alle minuscole particelle note come PM 2,5 che possono scatenare attacchi di cuore, ictus, cancro ai polmoni e asma e che , sempre secondo lo studio di Berkeley Earth, uccidono silenziosamente 1,5 milioni di persone all’anno, il 17% del livello di mortalità della Cina. Il governo cinese ha preso atto della situazione ambientale catastrofica assumendosi decisioni che stanno andando nella giusta direzione per cercare di risolvere la pericolosità dell’aria che viene respirata. Il prezzo da pagare non è stato basso, anzi i sistemi utilizzati dal governo sono stati piuttosto drastici. Oltre alla chiusura di tutte le fabbriche obsolete a carbone, è stato limitato l’uso di carbone e legna per il riscaldamento domestico nelle città. Inoltre il governo cinese ha puntato ingenti risorse sull’eolico e sul solare, iniziando la produzione di energia verde che contribuirà ad abbassare il livello degli inquinanti nell’aria nei prossimi anni. Per quanto riguarda il settore dei trasporti il governo prevede entro il 2020 la presenza sulle proprie strade di 200.000 veicoli elettrici e la messa al bando di 500 modelli di auto in circolazione considerati inquinanti. L’azione riformatrice del governo cinese non si esaurisce qui infatti sta cercando soluzioni anche contro la desertificazione e la de- ossigenazione dell’aria prevedendo la realizzazione di un piano di piantumazione ambizioso, infatti saranno messi a dimora circa 26 miliardi di piante nei prossimi 10 anni. Per quanto riguarda invece la situazione delle acque, attualmente, un terzo delle risorse idriche nel paese non è potabile e il 15% non è utilizzabile nemmeno per l’irrigazione o la produzione, in quanto è inquinata da pesticidi, scarichi industriali e fertilizzanti. Di conseguenza l’attività ittica è globalmente compromessa visto che il pescato presenta un grado di inquinamento altamente pericoloso per la salute. Alla luce di questo problema il governo ha costituito la figura del responsabile delle acque, che non è in ogni caso del tutto nuova, infatti questa posizione è nata già dal 2007, nell’area di Shanghai, quando accadde un grave incidente ambientale nel lago di Taihu, uno dei più grandi del paese, dove ci fu un’ invasione di alghe velenose. Circa 5 milioni di abitanti della città di Wuxi non avevano la possibilità di usufruire delle risorse idriche per la vita quotidiana e fu per questo che venne costituita la figura del responsabile delle acque che aveva il potere di sovraintendere le molte autorità sciogliendo finalmente l’ingorgo dei poteri e lo stallo decisionale.
SCOPRI DI PIU'Sistemi di riciclo Erema per i Tubi da IrrigazioneNell’ottica della circolarità degli scarti plastici nel settore dell’irrigazione, Erema aiuta a riciclare gli scarti di produzione dei tubi in LLDPE.Gli impianti prevedono il recupero degli scarti di lavorazione dei tubi di irrigazione attraverso la macinazione e la granulazione dei tubi in PE a bassa densità. Secondo le indicazioni di Erema, il sistema è stato progettato dal suo marchio Pure Loop e può gestire materiali come tubi anti goccia e tubi di irrigazione che si accumulano come scarti durante la produzione dei o vengono scartati durante i controlli di qualità. Erema dichiara che questa tecnologia permette la riutilizzazione degli scarti, sotto forma di granuli, che provengono dalla produzione, in una miscela con il materiale in PE vergine senza subire diminuzioni di qualità. Secondo Erema, il concetto di riciclaggio creato da Pure Loop "è già stato recepito dai produttori di sistemi di irrigazione negli Stati Uniti, Israele, Italia e Messico". L'azienda aggiunge: "Gestiscono impianti di riciclaggio con portate da 100 a 500 chilogrammi l'ora e riutilizzano i pellets riciclati prodotti in proporzioni fino al 20 percento nel processo di produzione.Foto: Pure Loop
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